mercoledì 16 maggio 2012

Fine stagione



Questo post non è un racconto. E’ un addio, o forse un arrivederci. Mi sono sempre dichiarato contrario alle azioni irreversibili – come sposarsi, fare figli, mandare e-mail alle persone che non devono leggerle, incidersi tatuaggi e cose del genere – e siccome finora sono riuscito a tener fede al mio proposito soltanto con riferimento ai tatuaggi e alle cose del genere, non voglio impegnarmi anche a considerare chiusa l’esperienza del blog. Diciamo, con un profilo più basso, che si chiude la stagione, come per le serie TV o per i programmi radiofonici. E a ottobre si vedrà.
Mi spiace per i lettori che tutti i mercoledì mattina negli ultimi mesi si svegliavano col sorriso e correvano in ufficio ad accendere il computer per leggere l’ultimo racconto con relativa illustrazione di quel misterioso blog di quello strano autore pieno di consonanti. Il fatto è che questi lettori fedeli e affezionati probabilmente esistono soltanto nel boschetto della mia fantasia. Le statistiche sul blog mi danno qualche indicazione. Ogni settimana il blog viene visitato dalla Germania (uno o due click), dalla Russia (da due a cinque click), dagli Stati Uniti (da due a cinque click). Ovviamente c’è anche qualche italiano che lo visita dall’Italia, ma i dati sull’Italia non mi consentono di individuare regolarità significative. Dal punto di vista del successo di pubblico, che dire? So che i lettori sono, anzi, siete pochi. Su sette miliardi di persone sparse per il mondo, tra cui circa sessanta milioni che capiscono l’italiano, io sono riuscito a catturare una manciata di click a settimana che si aggira dai cinque ai venti (qualcosa di più in settimane eccezionali). Si può a ragion veduta considerare che la visibilità di questo blog è pari a quella di uno sputo nell’oceano. Come parziale consolazione posso dirvi che lo sapevo fin dal primo post, che sarebbe finita così. Dal punto di vista del successo di critica, invece, le cose vanno meno bene: non ho mai letto un commento, mai un segno, mai un feed-back lasciato anche solo per sbaglio. Voi lettori, chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete?
In fondo li capisco, i lettori: neanche a me succede mai, dopo aver letto un libro o un racconto, di contattare l’autore e raccontargli la mia opinione o le sensazioni suscitatemi da quanto ha scritto. E quindi come posso pretendere che i lettori di queste specie di cartoline inutili che ogni tanto imbuco sul web perdano il loro tempo a comunicare se la lettura ha stimolato loro vomito o diarrea o mal di pancia? Ma allora che cosa mi ha spinto finora a scrivere, a insistere?
La risposta convenzionale che di solito danno gli artisti per farsi riconoscere come tali è: "io scrivo per me stesso". C’è qualcosa di vero, che condivido in prima persona: la pulsione, l’incontinenza creativa, è un ormone che ritorna ciclicamente e che va in qualche modo assecondato. Ma se si scrive per se stessi, che senso ha lanciare le proprie postille sul web? Perché non scegliere un canale alternativo, su cui sia facile magari tirare l’acqua dopo aver completato la creazione? In attesa di trovare una risposta, per il momento smetto di arrovellarmi, smetto di postare i post, e mi dedico ad altri passatempi ultimamente trascurati, come quelli elencati sul mio eloquente profilo.
A meno che il russo, l’americano e il tedesco non mi invitino a restare nella barzelletta, perché se no non fa più ridere.

mercoledì 9 maggio 2012

Tortilla


La platea sobbalzò sulle sedie vellutate della camera dei congressi quando vide Tortilla salire sul palco. Avevano appena parlato scattanti candidati premi Nobel, in competizione reciproca fondata non tanto sulla produzione di idee originali, quanto sull’abilità di fare vorticare nozioni alquanto ostiche con apparente nonchalance. Più incomprensibile era il loro intervento, più forti erano gli applausi. Erano intervenute anche eleganti signore pittate, fieramente impalate sui tacchi, il cui ruolo principale, però, consisteva nell’aggirarsi tra le sedie e nella hall durante il coffee break, con l’aria delle donne tutt’altro che ignote, ad arricchire le dotte conversazioni con la loro conturbante presenza.
La conferenza era dedicata alla misurabilità, concetto assai delicato, poiché, come tutti sanno, non tutto nel mondo reale è misurabile. Ma era appunto lo scopo di questo convegno cercare di prendere le misure corrette a problemi inediti, o almeno, poiché ciò non è possibile,  costringere i problemi inediti a entrare nelle vecchie misure, o almeno, poiché neanche questo è possibile, cercare di ritoccare le vecchie misure in modo che sembrino nuove di pacca e diano l’impressione di potere catturare e intrappolare i problemi inediti, o a limite, caso disperato ma non da escludere, rinunciare del tutto a parlare dei problemi inediti.
Fu così che la platea rimase profondamente turbata nel veder salire sul palco Tortilla, vestita di stracci e pezze, ma soprattutto obesa, sfrontatamente obesa. Mentre lei ridacchiava beffarda in attesa del microfono, non uno solo dei presenti poté evitare di pensare: e questa chi l’ha fatta entrare? Con tutti i sistemi di sicurezza fatti di chip magnetici, controlli di identità, metal detector, questa qui, con la sua borsa sospetta, è entrata senza che nessuno la fermasse?
Tortilla intanto era riuscita a catturare il microfono, si schiarì la voce, pretese il rispettoso silenzio che era stato concesso a tutti i precedenti interventi, e poi scandì, lentamente, le poche semplici parole:
“Non – avete – capito – niente.”
E restò fissa a guardare in faccia, uno ad uno, tutti i convenuti. Nessuno ebbe il coraggio di prendere la parola, e per un minuto intero regnò il silenzio e l’immobilità. Ognuna delle intelligenze riunite cercò di metabolizzare l’evento, di dare un significato alla presenza di quell’essere fuori contesto e fuori misura. Anche coloro che amavano parlare veloci per non farsi capire meglio, presi alla sprovvista, tacquero, e quel loro silenzio spiazzò i loro colleghi ben più dei loro pimpanti interventi. Li spiazzò perché tutti, per la prima volta, ebbero l’impressione di capirli davvero, adesso che tacevano, e di non averli capiti prima quando blateravano di misurazione, rigore, austerità, esattezza, precisione.
E se avesse ragione l’obesa? Se davvero fossimo tutti fuori strada? Fu un breve minuto in cui il dubbio si insinuò come un virus nella roccaforte di certezze autoreggenti. Poi arrivarono gli anticorpi. Tortilla fu allontanata dalla stanza, fu accompagnata in ascensore al piano terra, le fu sequestrato il pass elettronico e fu spedita fuori dalla Tower, a scorazzare per le strade come un volgare mortale senza voce.

mercoledì 2 maggio 2012

Effettivamente



Una fermata di una quindicina di minuti. Giusto il tempo di prendere una boccata d’aria aperta. Un grande e spettacolare parco si estende fuori dal treno. Scendo e passeggio sotto il sole e l’aria fresca, che rianimano la mia pelle sacrificata all’ombra del chiuso.
Sento delle voci lontane, là dietro quell’albero illuminato dal sole. Affretto il passo per andare a vedere. Mi sdraio sull’erba per non disturbare. Sono su un campo di denti di leone pronti a volar via al primo soffio di vento e a ogni mio spostamento. Resto immobile, quindi, una macchia nera in un quadro puntinato di bianco. Dei bambini stanno giocando, padroni di un parco giochi costruito su misura per loro. Giovani donne (madri? sorelle? parenti?) spingono le altalene, animano i giochi, e fanno ridere i loro bambini con gesti goffi, sguardi grotteschi, voci innaturali. Ridono i bambini, con la stessa facilità con cui piangono, e per ridere non hanno bisogno della parola, né di dovere afferrare alcun concetto. Basta il tono di voce a dare loro il senso del comico.
I bambini scoprono il mondo. Le loro accompagnatrici lo disvelano suggerendo stupori e sorprese. Guarda quell’uccellino tutto rosso! Prendi la foglia che cade! Guarda come sei arrivato in alto!... E i bambini, a questi suggerimenti, a queste aperture di sguardi sul mondo, ogni volta pare che stiano per rispondere: “Effettivamente.....”.  Sì, effettivamente il mondo è così: ricco di sorprese che stanno davanti ai nostri occhi, e che noi tranquillamente ignoreremmo, se qualcuno accanto a noi non ci stimolasse a scorgerle. Effettivamente, la curiosità non nasce da noi stessi, ma dal nostro modo di stare con gli altri. Il vuoto che con la solitudine si crea dentro di noi inevitabilmente inebetisce anche la curiosità, e l’apatia della curiosità a sua volta non fa che approfondire il vuoto.  Ripenso a una frase di Camus: per lottare contro l’astratto bisogna un po’ somigliargli. Come è maledettamente vera! Ma allora perché lottare? Perché farsi plasmare, inebetire, svuotare? I bambini giocano, si divertono, ridono e piangono, e questo vuoto non possono sentire. Non lo possono sentire neanche le loro madri o sorelle o parenti, riempite della presenza di quei piccoli indaffarati esploratori di vita, che le costringono, per potere comunicare con loro, a restare in stretto contatto con le sensazioni più semplici e meno contaminate dalle difficoltà del vivere.
Nessuno, in questo quadretto di stupori e curiosità, si accorge della presenza di una macchiolina nera in un prato puntinato di denti di leone. Nessuna madre dirige lo sguardo del bambino verso quello strano individuo che osserva, curioso sì, ma di una curiosità astratta, il roteare dei giochi e dei movimenti impacciati, come se questo roteare e questo impaccio fossero i veri oggetti del suo interesse. Nessuna madre o sorella o parente suggerisce al suo bambino, neanche quando l’uccellino rosso è volato via, di guardare quello strano contenitore di oggetti senza peso che affollano la mente e la costringono alla ricerca compulsiva di un ordine nel caos, una visione lucida nella nebbia.
La macchiolina nera è scomparsa, dispersa nell’aria come un dente di leone, e ha ripreso la via verso il treno.

mercoledì 25 aprile 2012

Blow job



Discretamente miope, il Grigio camminava di notte per una strada poco illuminata di una città sconosciuta, Barcellona, agglomerato urbano per lui imbarazzante, così pieno di colori e di giovani disinvolti. A differenza dei giovani che brulicavano per la città, lui era lì per una grigia missione di lavoro. Mentre cercava con fatica di distinguere i contorni delle sagome di alcune ombre ondeggianti sotto il fascio di luce di un palo, il suo sguardo concentrato fu intercettato dagli occhi di una delle ragazze africane che stavano conversando e ridendo fra loro. “Ehi! Ehi!” lo chiamò la ragazza, ma il Grigio, imbarazzato per mestiere, fece finta di non aver capito e, tornato a fissare il selciato, tirò dritto. La ragazza africana si staccò dal gruppo e gli si accostò, seguendolo per qualche passo. Lo guardava dritto negli occhi, seria e innocente, e senza alcuna ombra di pudore gli chiese: “Are you looking for sex?”.
Adesso il Grigio la vedeva bene. Era bella, doveva convenire. Due occhi enormi e un corpo da campionato di pattinaggio su ghiaccio. Dentro la sua testa stava confusamente balbettando una risposta, qualcosa tra una reticente e vergognosa accettazione e una sofferta rinuncia, e stava cercando di improvvisare anche il tono e l’inflessione della voce, un recitativo in bilico tra il libertino donnaiolo e il moralista bacchettone. In breve, la domanda lo aveva profondamente imbarazzato, e stava ancora cercando di orientarsi quando la ragazza affinò l’offerta: “Would you like a blow job?”.
Evidentemente lei aveva capito, con occhio clinico, che per attirare il suo potenziale cliente era più adeguato proporre un servizio un po’ sbrigativo ed economico, e soprattutto poco responsabilizzante, qualcosa che poteva essere realizzato in modo che davanti a un tribunale il suo cliente potesse sostenere il giorno dopo che non di sesso si trattò, ma di qualcosa d’altro, vostro onore, un glande-lavaggio, niente di più, senza alcuna partecipazione cardiaca né intrusione indiscreta in territori di norma occultati. E nel fare la sua proposta, la ragazza continuava a guardare il Grigio con uno sguardo che conteneva addirittura fierezza e un retrogusto di sorriso.
Non aveva fatto i conti, però, con l’ignoranza del Grigio. Se gliel’avesse chiesto in italiano, forse il Grigio avrebbe avuto una vaga idea del procedimento in preventivo. Ma che diavolo fosse questo presunto lavoro del soffio il Grigio proprio non riusciva ad immaginare. Sarà un bacio appena sfiorato? O una parola oscena sussurrata all’orecchio? Una libidinosa snariciata tra le mani? O la vecchia infantile gara di puzze?
“Excuse me, but I never did the Erasmus” buttò lì con sincerità, a mo’ di scusa.
Avrebbe tanto desiderato chiedere di che cosa si trattava, qual'era la meccanica implicata da questo bizzarro lavorio del soffio. L’energia eolica non farà andare i treni, ma il vento è capace di levigare le rocce. E però soltanto chiedere una delucidazione – non pensiamo nemmeno a una dimostrazione pratica – era per il Grigio una richiesta mortalmente imbarazzante.
Restò a interrogarsi per tutta la sera, vagando a caso tra un vicolo e un altro, come sospinto da dolci raffiche di quel vento che la bellissima africana non riuscì a vendergli.

mercoledì 18 aprile 2012

I brividi della fede




“Ma noi, Tom, siamo protestanti?” chiese Raul, un mulatto stralunato.
“Tu non so, io in teoria lo sono,” rispose Tom “altrimenti Elsje mi abbandonerebbe.”
Elsje sorrise per il dissacrante omaggio d’amore, e poi osservò: “Raul, da quanto dici sembra che i brividi della fede non ti abbiano mai fatto passare le notti in bianco.”
“Infatti” rispose il mulatto sorridendo “la mia è pura curiosità: per me, posso essere qualsiasi cosa, basta saperlo.”
“Raul, non puoi essere indifferente fra una religione e un’altra” intervenne William “è come dire che bere rum è la stessa cosa che bere birra, mentre tutti sanno che non è così! La religione è la bevanda alcolica dei popoli, e tu devi scegliere che cosa vuoi: rum o birra?”
“E se volessi prima la birra e poi il rum?” filosofeggiò il mulatto, lasciando interdetto il biondo anglosassone.
“Ehi, cioccolato al latte,” proruppe Dolf “la religione non è mica una bevanda qualsiasi che puoi scegliere così come ti pare e magari cambiarla il giorno dopo.”
“E allora come si sceglie?” chiese Raul con lo sguardo dischiuso al mistero della vita.
“Semplice, non c’è da scegliere.” si intromise Karel che si pettinava meditabondo la barba rossa con le unghie terrigne “Se sei nemico degli spagnoli, allora sei protestante, se sei spagnolo sei cattolico.”
“Come si dice in latino: eus cucusque regio ligio” chiosò Dolf “o qualcosa del genere…”
“Cuius regio, eius religio” corresse Elsje.
“E che significa?” domandò William dischiudendo il gorgo dei suoi denti malsani nell’udire quei balbettamenti incomprensibili.
“Significa” precisò Dolf “che se il tuo signore è protestante tu devi essere protestante, e che se ti rifiuti di essere protestante il tuo signore ti scuoia come un vitello.”
“Ma no che non ti scuoio” rassicurò Tom “Volete sapere come la penso veramente? Io penso che la forza ultraterrena che fa avanzare la civiltà è il demonio. Cosa credete, che le grandi scoperte del nostro secolo le abbiano fatte gli appassionati del regno dei cieli? A mettersi in mare sono sempre stati i delinquenti disperati, coloro per cui la vita umana si misura in once d’oro se si tratta dei propri conterranei, in galloni di sputo se si tratta di barbari. Gli stati dell’Europa, e i loro sovrani innanzitutto, si sono arricchiti grazie ai criminali. E i pirati, modestia a parte, al giorno d’oggi sono i peggiori delinquenti che si possano incontrare sulla nostra bella terra tonda come un ovetto.”
“I pirati svolgono per la storia lo stesso ruolo che gli orifizi peccaminosi svolgono per la vita” sintetizzò Elsje, con aria ispirata.
Illuminato dalla metafora di Elsje, con il guizzo dello studioso che scopre l’arcano, Raul risolse i suoi tormenti gridando trionfante: “Lunga vita ai pirati!”

mercoledì 11 aprile 2012

Leggenda polinesiana


La canoa, dopo un’intera mattinata di voga, arrivò nel punto preciso del nostro immenso oceano Pacifico dove non passano mai le onde e l’acqua è piatta come quella di un lago, anche nei giorni in cui tutto intorno c’è tempesta.
“Eccolo, ragazzo!” gridò il vecchio tirando i  remi in barca, e invitò il giovane a fare altrettanto. “Guarda bene il fondo dell’acqua, ragazzo. Tra poco scoprirai il segreto di tua nonna Tautiare.”
Il ragazzo si sporse dal bordo della canoa facendola oscillare. Affondò lo sguardo nel profondo blu e restò in attesa. Dopo qualche istante gridò: “Oééééééé”…. Dall’abisso era comparsa una foglia gialla di forma allungata, aveva raggiunto la superficie e si era lasciata trasportare dalla corrente in direzione dell’atollo di Maturei Vavaio. “Sono le foglie di nonna Tautiare!” esclamò il giovane.
“Vedi da dove arrivano?” illustrò il vecchio. “Non è Tautiare a cercare le foglie. Sono le foglie che, dopo essere affiorate dal centro dell’oceano, vanno incontro a lei, dovunque si trovi. Sai che prima di venire a partorire da noi, a Maturei Vavaio, tua nonna viveva a nell’atollo di Vahaga? Ebbene, a quell’epoca le foglie si dirigevano verso Vahaga, dove lei le raccoglieva dalla riva, le lasciava asciugare al sole e poi le seppelliva sottoterra accanto alla sua casa. Esattamente come fa ancora oggi.”
Al sentire proferire il nome di Vahaga il ragazzo trasalì. “Mia nonna viveva nell’isola dei selvaggi?”
“Sì, ragazzo, e suo padre era, a Vahaga, un intimo conoscente degli esperti di magia nera. Fu lui a orchestrare il prodigio dell’alba di fuoco. Questo è appunto il segreto che ti voglio raccontare. Devi sapere che tua nonna Tautiare era fidanzata con uno di noi, Tehaamaru, un valente pescatore, che passava tutte le sue giornate in canoa. Ogni giorno Tehaamaru, con la tempesta o con l’acqua calma, vogava da Maturei Vavaio a Vahaga per far visita alla sua amata. Dopo un anno di frequentazione caparbia, i due amanti riuscirono a convincere l’ostile padre di Tautiare a organizzare un matrimonio. Come unica condizione, il padre della sposa pretese che fosse rispettato un antico rito in vigore presso la popolazione di Vahaga, secondo il quale il giovane Tahaamaru, il giorno prima del matrimonio, avrebbe dovuto recarsi da solo con la sua canoa in mezzo all’oceano, proprio qui in questo punto dove siamo noi, dopo una traversata notturna, per farsi mondare l’anima dal primo sole del mattino. I due fidanzati accettarono entusiasti, quindi il padre della sposa, consultatosi con le autorità francesi, fissò la data del matrimonio.”
Il ragazzo, attonito, squadro il vecchio e chiese: “Fu il giorno dell’alba di fuoco? Tahaamaru, mio nonno, si trovava qui?” 
“Qui fu polverizzato insieme alla sua canoa. Tua nonna, che all’epoca aveva un nome francese, pianse inconsolabile, finché l’oceano le inviò le prime foglie, lunghe e gialle come la canoa di Tahaamaru. Decise quindi di abbandonare la famiglia e l’isola dei selvaggi per venire a partorire da noi a Maturei Vavaio, dove nacque tuo padre. Nessuno riuscì a farla desistere. Le parlarono di progresso, di sperimentazione, della forza invincibile che si sprigiona dall’invisibile. Ma lei partì, cambiò nome, e non tornò più.”

mercoledì 4 aprile 2012

Un'anguilla in città




Come un’anguilla intraprendente, Norberto sgusciava tra un’auto e un’altra a cavallo della sua bici ventennale, alla ricerca del posto in prima fila davanti al rosso del semaforo. Gli autisti incolonnati ringhiavano tra i denti e con i motori. Un motociclista gli ostruiva il passaggio fra due macchine, e per soprammercato gli mitragliava una buona dose di gas tossici sotto il naso. Stava ridendo, dentro quell’oblò che gli foderava la testa: Norberto lo sapeva che stava ridendo mentre lo obbligava a quelle abluzioni.
Accettò quindi la sfida, decise di insinuarsi come una fesa di anguilla tra il motorino strafottente e un SUV imperioso, col risultato inevitabile di strisciare sia il pedale destro sul parafango della moto, sia il manubrio sulla preziosa carrozzeria del SUV.
“Ma che hai fattooooo?” sbraitò la conducente del SUV abbassando il finestrino e stirando le giugulari.
“Signora, sarò sincero. Lei è troppo ingombrante. Non si entra in un labirinto con un elefante.”
“Elefante sarai tu” rispose piccata Lady Giugulara, e cominciò a sterzare per accostarsi al marciapiede, indifferente alla polifonia di clacson sollevatasi nel nanosecondo esatto in cui scattò il verde. Mentre la goffa manovra di accostamento proseguiva, la moto si dileguava elegantemente lasciando aleggiare in sua memoria una nuvoletta di pm10, e le macchine in coda, ancora bloccate, esprimevano un’ira crescente nel presagire sempre più inevitabile il ritorno del rosso.
“Lo sai quanto mi costa questo graffiooooo?” minacciò Lady Giugulara dopo aver esaminato il minuscolo virgolino bianco su fondo nero.
“Innanzitutto, signora, il fatto che lei guida un SUV e io una bici senza cambio, assemblata e antiestetica, non l’autorizza a darmi del tu. E poi, vuole un consiglio? Lasci stare questo arabesco così com’è e coi soldi risparmiati pensi piuttosto a pagare le tasse.” 
Salì sul marciapiede e affondò sui pedali. Svoltato l’angolo, Norberto stava ancora cercando di indovinare l’insulto che Lady Giugulara gli inoltrava dalla cortina di clacson (screanzato? maleducato? insolente?), quando udì una voce di donna anziana latrargli dietro: “screanzato! maleducato! insolente!”. Si era spaventata, la passante, anche se Norberto l’aveva superata mantenendo una distanza adeguata.
“Ai miei tempi le bici andavano in strada! C’era rispetto per i pedoni!”
“Signora, ai suoi tempi c’era anche rispetto per le bici. Non facciamoci la guerra fra poveri.” e scattando avanti la lasciò pontificare contro il ciclista (come si permette?), e poi contro il sindaco della città (comunista….), e poi contro il governo (quando c’era Lui….), e poi contro l’Europa (i sacrificii…..).
Appena tuffatosi sulla strada, un nuovo fiammante SUV gli si accostò sgommando a due centimetri dal gomito sinistro. L’evasore fiscale che lo guidava gli si rivolse telegrafico da dietro il finestrino abbassato:
“Scusa, Piero della Francesca….?”
“E’ morto” rispose Norberto, e come un’anguilla braccata risalì, clandestino, sul marciapiede.

mercoledì 28 marzo 2012

Pensieri



“Cosa c’è in cima ai miei pensieri?” disse Marta quasi ad alta voce, e istintivamente guardò in alto.
“Un lampadario!” disse il suo collega, il Grigio, vedendo che Marta si era soffermata a guardare quel lampadario di pezza scolorita che troneggiava sulle loro teste.
“No” rispose Marta al Grigio, “Dico in cima in cima, più in alto.”
“Oltre il soffitto?” chiese il Grigio.
“Certo, mica si fermeranno al soffitto, i pensieri!...”
“Ma i pensieri non si vedono.” provò a obiettare il Grigio.
“Massì che si vedono” e Marta si alzò dalla sua scrivania. Si avvicinò tacchettando al finestrone dell’ufficio. Il Grigio la guardava forzare la finestra, ma questa era chiusa a chiave.
“C’è l’aria condizionata” le disse.
“E chi se ne frega?” fu la risposta “Mi aiuti ad aprirla?”
Il Grigio non obiettò nulla, si alzò dal suo computer e si avvicinò alla finestra. Aveva un debole per Marta. Anche lei si vestiva di grigio quando veniva in ufficio, ma si vedeva che lo faceva per non dar nell’occhio. Puro camaleontismo. Il Grigio invece era sempre grigio, anche la domenica. Per questo era attratto da Marta colorata. Fece finta di aiutarla ad aprire quella finestra, ma sapeva che era impossibile.
“Bisognerebbe chiedere la chiave al capo” suggerì infine.
“No, eccoli….” esultò Marta, e si attaccò col naso al vetro. Il Grigio, che era anche un po’ miope, provò a guardare fuori, accanto a lei.
“Vedi i tuoi pensieri?” le chiese. Lei indicò col dito una nuvola di storni in volo. Scattavano in ogni direzione: a destra a sinistra, in su, in giù, e la nuvola era una continua fantasia di forme. Il Grigio, che oltre a essere grigio e miope, era anche un po’ corto d’immaginazione, non riusciva proprio a vederli, i pensieri di Marta. Strizzò gli occhi per affilare lo sguardo, ma niente. Gli storni scattando formavano un’onda, no, una montagna, no, un arcobaleno, no, una grotta, no, un pallone, no, un fungo. Marta ne era estasiata, mentre il Grigio la osservava intontito.
“Stai guardando gli uccelli?” le chiese incredulo, finalmente miracolato dall’intuizione. Marta annuì sbadata, senza degnarlo di uno sguardo. Gli storni intanto si erano tutti poggiati sui quattro alberi della piazza, ma per un breve attimo. Poi uno di loro, quello che indovina per primo ciò che tutti gli altri stanno pensando, spiccò il volo, e con un palpitare d’ali la luce del cielo fu di nuovo oscurata. Quando la nuvola sparì sopra il tetto del palazzo, Marta si girò verso il Grigio, che oltre a essere grigio, miope, corto d’immaginazione e un po’ tonto, era anche sudato. Gli bevve il sudore che gli imperlava le labbra, e tornò a sedere dietro il monitor.
Quella sera il Grigio ritrovò la sua macchina orribilmente scagazzata, ma non ebbe il coraggio di portarla a lavare.

mercoledì 21 marzo 2012

Vecchio



Che cos’hai nelle orecchie? Com’è che si chiama? iPod? Che significa iPod? Perché la maiuscola è la seconda lettera e non la prima? Quella “i” è un articolo determinativo plurale? No, è l’iniziale di una parola. Come dici? Anche iPhone si scrive così? Anche iCloud? E iPad? Ma che vuol dire quella “i”? Ah, non si dice “i”, si dice “ai”. E’ inglese? Ma in inglese che significa? Dici che non è importante. E lì, dentro quell’ostia, ci entra tutta la musica? Non tutta, dici, ma tanta. E con quell’altro suppostone puoi anche parlare con qualcuno al telefono? E anche se lo tieni sull’orecchio, quell’altro riesce a sentire? Con chi parli adesso? Ah, è tua mamma. Le dici di buttare la pasta ché stai arrivando. Mai più senza suppostone! E quella specie di tegola, dici che non è una tegola. E’ uno schermo che ti fa vedere tutto. Non tutto, dici, ma molto. Tutto il mondo che sta su internet, giusto? E’ così che si chiama: iNternet? Con la n maiuscola? Ah, no, non c’entra. Perché me lo punti addosso? Mi hai fatto una foto? una iPhoto? Non si dice così. E dov’è la pellicola? E’ lì dentro? Se la tiri fuori si brucia? Non si brucia? Non è una pellicola? E che cosa porti a sviluppare? Cosa cosa cosa? Quello sono io? Già sviluppato? Altro che sviluppato, sono anche un bel po’ invecchiato…. Eh eh, scusa il calambour. E adesso con quella iPhoto che fai? Dov’è che la metti? Facebook? Un libro di facce? Mancava la mia faccia? No, dici che non c’entrano le facce. Allora perché metti la mia? Per farla vedere agli amici? Vi vedete oggi, tu e i tuoi amici? Lasciami indovinare: vi incontrate per una merenda a base di vin brulé e castagne, e guardate il libro delle facce. Cosa dici? Non è un libro? Non si porta? Ognuno può vederlo da casa. Quindi non vi incontrate, tu e i tuoi amici? Cosa significa che siete sempre connessi? Ah, sì, questo forse lo so: usate il calcolatore elettronico. Non si chiama così? E il vin brulé e le castagne? Ognuno a casa sua, dici. E come fate a parlarvi? Vi scrivete, soprattutto. Bella idea! Sai quanti pensieri spuntano fuori in una lettera? Come? Non vi scrivete lettere? E allora cosa vi scrivete? Ah, messaggi brevi. E voi sprecate un francobollo per messaggi di poche righe?.... Che dici? Non li spedite? Siete capaci di leggerli sempre restando a casa, ognuno davanti al suo calcolatore elettronico. Ma ogni tanto vi vedete, con gli amici con cui sei connesso? Li inviti mai a casa tua a bere un vin brulé? Non si beve più il vin brulé? Vabbè, a bere qualcosa…. Che cosa hai detto? Quanti amici hai? Trecentocinquantasette, e in progressivo aumento? Ma siete già un piccolo esercito. Allora credo bene che non li inviti a casa! Potreste riempire un teatro. Sì, un teatro, hai presente quelle sale piene di sedie di fronte a un palco? Certo, tutti zitti, parlano solo gli attori sul palco. Dici che non fa per voi? E perché mai? Troppo tempo concentrati? Certo, d’accordo, ognuno deve poter parlare, ma c’è qualcuno che ascolta? Va bene, mi correggo, scrivete, ma c’è qualcuno che legge? E poi chi decide che cosa è più importante e che cosa meno? Selezione naturale, dici? Chi è più clickato è più bravo? Davvero? Quindi anche voi fate come i giocatori di borsa: la vostra intelligenza è rivolta ad indovinare come l’opinione media immagina che sia fatta l’opinione media. Bella frase, vero? No, non è mia, è di un vecchio dinosauro che non legge più nessuno. Forse quando neanch’io ci sarò più, quella frase non sarà mai stata scritta. Ciao, uccellino, vado a bermi un vin brulé.

mercoledì 14 marzo 2012

Dura lex



Diversi strati di maglie e cappotti facevano apparire il barbone come un armadio ambulante. Bastava un solo movimento della mano a liberare un effluvio di latrina impastata ad alcool e chissà a quale altra esotica essenza corporea. E la mano si muoveva eccome! Era un continuo scribacchiare appunti su un quaderno logoro poggiato su un tavolino raccolto fra i rifiuti dell’immondizia. Davanti al barbone, sul passaggio d’asfalto lungo il fiume, ai margini della città, era una fila di miserabili, pazienti e infreddoliti.
Il signor Tronchetti, quando si trovò di fronte all’armadio scribacchino, cercò all’inizio di trattenere il respiro, ma capì subito che respirare senza svenire doveva costituire parte della prova.
“Ho visto il tuo curriculum” biascicò il barbone senza guardarlo negli occhi. L’odore dell’alcool metabolizzato diede al signor Tronchetti un bruciore al fegato. “Qui c’è scritto che sei stato classificato allievo di fascia A sia alle elementari che alle medie. Poi hai fatto il liceo in un collegio svizzero, ottenendo un diploma di maturità a pieni voti. Infine una laurea tedesca con lode e bacio accademico.”
“E’ esatto” riuscì a dire Tronchetti.
“Poi sei stato manager esecutivo di un’importante impresa multinazionale.”
“E’ esatto.” Squittì il signor Tronchetti deglutendo una goccia di saliva amara.
“E perché hai perso il lavoro?” inquisì il barbone, questa volta rivolgendo al signor Tronchetti un’occhiata liquida e iniettata di sangue.
“Perché non sono riuscito a far salire le quote azionarie al di sopra dell’obiettivo prestabilito per la fine dell’anno fiscale.”
“E dopo aver perso il lavoro non sei riuscito a riqualificarti? Sai com’è, la flessibilità….”
“Ci ho provato, dottore. Ho provato a fare il musicista, il filosofo, il matematico. Ho anche aperto un blog di racconti ma sul web nessuno viene a farmi visita. Sono un perfetto anonimo.”
“Hai provato col porno?” suggerì il barbone, “Ma no…. con quella faccia… caro mio sfigato, la legge del mercato è dura ma è la legge! Dimmi, per quale ragione dovrei fidarmi di te?”
“Perché…” La voce del signor Tronchetti diventò affannata e supplichevole. “…non so più dove andare….. ho dovuto vendere la casa a un prezzo stracciato…  e sono ancora carico di debiti….”
Il barbone finì di compitare sul quaderno. Scriveva come un bambino delle elementari, alzando continuamente i gomiti e generando crescenti ondate del suo olezzo calorifico. Poi dichiarò:
“Mi spiace, non sei abbastanza qualificato. Su questa strada non c’è posto per te. La concorrenza… sai com’è…. Vai a dormire da qualche altra parte.” E a voce più alta scatarrò: “Avanti il prossimo”.
Il signor Tronchetti si avvicino al limite della lingua d’asfalto, diede un’ultima occhiata alle ciminiere su cui un tempo aveva comandato, poi si voltò verso le macchine parcheggiate al confine tra la civiltà e l’ignoto. Sospirò e si risolse per il fiume. Lo schiocco del ghiaccio che si infrange fece tendere l’orecchio al barbone. La leggera torsione del suo collo di crostaceo fece piegare in due il candidato successivo.

mercoledì 7 marzo 2012

1/3/2012



Sono uscito presto la mattina, la testa piena di pensieri. Ho scansato macchine e giornali, incluso un toro intelligente che si era fermato col rosso. Volevo sbrigarmi e tornare in fretta a casa, perché – pensavo –  tanto oggi è come ieri. A casa avrebbe dovuto attendermi una notte sempre uguale, senza chitarre, da fine carnevale. E invece le chitarre si sono messe a suonare fin dal mattino, e suonavano il piano di Dalla-Monk, il sax di Dalla-Coltrane, la voce di Dalla Lucio, il clarino lunare, ma io non ne sapevo niente. Me l’ha detto una collega di lavoro, che te ne sei andato. Sei partito adesso, partito scalzo, partito in mutande. Ma come, partito? Non era il momento! Mettiamo che ti dovessi parlare, cosa debbo fare? Scriverti? Sono corso ad accendere il mio computer, il mio cuore, il mio televisore. Lì dentro è salvata l’ultima immagine che ho catturato di te, appesa a un muro tedesco insieme a quella di un altro mito della musica italiana (che legittimamente, se leggesse queste righe, dovrebbe concedersi una grattatina). Il concerto sarà cancellato, e quel treno Palermo-Francoforte non dovrai prenderlo più.
Poi a casa, finalmente. Questa sera è così strana e profonda che lo dice anche la radio – anzi, lo manda in onda. Ascoltatori telefonano, testimoniano, con commozione, con tenerezza. Le parole cadono tra le tante che diciamo, guarda per terra quante ce n’è. E intanto tu corri dietro al vento, e sembri una farfalla, e poi ragioni giusto, seguendo il volo degli uccelli e il loro ritmo lento, e forse hai già trovato dove puoi nascere e morire con l’odore della neve. Oppure sei triste anche tu, solo davanti a tutti i campanelli, così solo che ti metti a suonare. Qui nessuno ti può sentire, siamo tutti impegnati a riascoltare le tue canzoni, con affetto. E’ l’amore silenzioso dei pesci. E tu sei solo – ci pensi? – da solo, a guardare le stelle. Ma che andassero a cagare!
Resto qui, dunque. La notte sta morendo, ed è cretino cercare di fermare le lacrime ridendo. Con gli occhi tondi e neri e fondi, guardo ancora quella mia foto della tua foto incrociata sul muro tedesco, quel giorno in cui tutti gli altri italiani ti hanno visto in TV dirigere l’orchestra a Sanremo. Lassù, invece, ti ho visto solo io. Mi sembra come una confidenza, un piccolo privilegio, come se ti avessi conosciuto di persona. Poi la vita ti è passata accanto, con le mani ti ha salutato e ti ha fatto bye bye. E ora so per certo che non puoi staccarti da quel muro e poi venire giù. Con noi.
Allora semplicemente, caro amico, ciao a te, alla tua puzza di piedi, ai tuoi peli sulle mani.

mercoledì 29 febbraio 2012

Presagio



Incontrammo Spino quando ancora ci stavamo allacciando le scarpe da trekking. Ci guardava con due occhi giocherelloni persi in un ammasso di pelo. La sua coda roteava come una pala d’elicottero. Livia era un po’ preoccupata. Perché ci seguiva? Non era pericoloso, così enorme? Io naturalmente non sapevo rispondere, ma gli occhi del cane e la sciabolate della sua coda mi convincevano a farmelo amico.
Salimmo lungo il sentiero insieme a Spino che trotterellava avanti e indietro. Le sue zampe da orso lasciavano impronte sul fango tanto più profonde quanto più intensa era la foga con cui partiva all’inseguimento di sassi e i bastoni. Ogni tanto sprofondava il muso sotto il tappeto di foglie dei castagni, a contemplare la quarta dimensione degli odori. Sarebbe bello, pensavo, avere un cane come questo, da portarci dietro in montagna la domenica. Bello ma ingombrante. Come avremmo potuto tenere una fiera del genere nel nostro misero bilocale di città? Lui da solo monopolizzerebbe il divano. Livia rispondeva con sorrisi afoni alle mie fantasie mute.
Da qualche parte, nei dintorni, questo cane doveva abitare, era troppo socievole per essere randagio, e noi probabilmente ci stavamo allontanando troppo dal suo territorio. Nei pressi di una diga che il nostro sentiero doveva attraversare, chiedemmo a un pastore se avesse mai visto circolare Spino su quei versanti, ma il pastore non ne sapeva nulla. Si offrì però di distrarlo e tenerlo con sé per lasciarci fuggire lungo il passaggio pedonale sulla diga. Provammo così a eclissarci mentre Spino si perdeva nei dettagli dei prati circostanti, ma appena con la coda dell’occhio vide che stavo per chiudere la porta del passaggio, si lanciò in una corsa sfrenata  e non ci fu verso di farlo desistere: aveva deciso di seguirci fino in cima.
Sulla cima del monte non prese d’assalto il nostro cibo, ma aspettò accucciato che glielo offrissimo. Si accontentò di quel poco di prosciutto, formaggio e pane compatibile con le nostre risorse. Lo feci ruzzolare durante la pausa ristoratrice. Anche Livia era contagiata dalla mia allegria, i suoi timori iniziali si dimostravano sempre meno fondati. Seduto accanto al cane, mentre contemplavamo la vallata, parlai a Spino come se ci conoscessimo da sempre. Guarda – gli dissi – la cappa d’inquinamento che avvolge la vallata. Noi viviamo lì, nella camera a gas. Che cosa guadagneresti a seguirci? Non sapremmo nemmeno dove metterti, così puzzone e intrasportabile. Però devo dirtelo, Spino, se tu potessi venire a devastare la nostra casa, Livia e io non saremmo più gli stessi, attireresti come un magnete tutte le nostre attenzioni, e non ci sarebbe stanchezza o inquietudine a frenare la gioia di averti al nostro fianco. Mentre parlavo, Spino mi mordicchiava la mano che avrebbe potuto spezzare come un biscotto, e Livia aveva gli occhi lucidi.
Gli occhi lucidi vennero anche a me, tornati a valle, nel vedere dallo specchietto retrovisore Spino correrci dietro e perdersi dietro le curve asfaltate, come se i suoi padroni non potessimo che essere noi, come se ci avesse cercati da tempo vagando fra le alpi, come se volesse dirci qualcosa che non avevamo ancora capito. Capimmo, infine, con un ritardo di due giorni: dal test di gravidanza risultò che Livia era incinta.

mercoledì 22 febbraio 2012

Questioni di ciocca



“Dicono che laggiù in centro città sia pieno di infedeli.”
“Quelli che stanno dietro l’angolo con la macchina fotografica con lo zoom, pronti a fotografarti una ciocca di capelli?”
“Sì, quelli. Coprili bene, i capelli, ché se te li vedono non sanno resisterti e cominciano a salivare.”
“I miei capelli li vede solo quel coglione di mio marito.”
“Appunto, non vorrai mica che anche altri uomini si rincoglioniscano a causa tua.”
“Ma sembra che oggi gli uomini abbiano altro a cui pensare. Dicono che sia in corso una rivoluzione. Pare che partecipino anche le donne.”
“Donne disoneste?”
“Credo di sì. Tutte con le ciocche al vento.”
“Che schifo! Come fanno a non vergognarsi?”
“Pare che vendano le loro ciocche al migliore offerente.”
“E gli uomini cosa se ne fanno delle ciocche?”
“Le appendono nei camion e ci fanno i calendari. Gli studenti pare che le usino come segnalibri!”
“Miseria della filosofia!”
“E poi, quando nessuno li vede, si spennellano i Grundrisse!”
“Davvero? Credo bene che vogliono picchiare le mani! Hanno gli ormoni in agitazione.”
“Sono giovani, bisogna anche capirli. Finchè non prendono moglie non sanno chi picchiare.”
“In ogni caso stai attenta, quando li incontri, a non metterti in mezzo. Nascondi tutte le tue rotondità.”
“Ma io sono tutta rotonda. Me lo dice sempre quel coglione di mio marito.”
“E tu lo lasci dire? Io a quest’ora farei lo sciopero della ciocca.”
“Se ci provo lui mi toglie gli alimenti.”
“Porco maschio!”
“Ah, quello poi… mai assaggiato, neanche dopo il Ramadan.”
“Ma sei sicura di volere andare? Guarda che ci sono anche i soldati pronti a sparare sulla folla!”
“Sì, ma Allah sta con i soldati, non è vero? Se sta con i soldati, mi proteggerà dalle loro pallottole.”
“Sai cosa penso, però?….. io a questa storia di Allah…. insomma, mica ci credo tanto, sai?”
“Non dirmi che stai diventando cristiana.”
“No, no, dalla padella nella brace no! Non so come dirtelo… io non ho studiato, non so neanche leggere…. ma questa storia che c’è Allah che pensa a tutto, insomma, onestamente…. mi fa un po’…..”
“Una pippa?”
“Ecco, appunto!...”

mercoledì 15 febbraio 2012

Punturina


“Tu sostieni che mio figlio non è mai tornato in Italia. Come fai ad esserne sicuro?”
Camminano lungo i vicoli che l’esondazione del fiume non è riuscita a coprire. La pioggia biblica ha smesso di cadere, lo specchio dell’acqua comincia a ritrarsi.
 “Deve sapere, ingegnere, che Punturina – così lo chiamavamo qui a York – credeva nelle cose che studiava, credeva che fossero nozioni utili, sensate, di sicura applicazione a problemi concreti; credeva che il master in economics che stava frequentando gli avrebbe spalancato le porte della carriera universitaria. Non avrebbe mai potuto rientrare in Italia. Laggiù siete pieni di laureati tirocinanti che negli studi commercialistici vanno a fare la spesa per conto della moglie del titolare, negli studi notarili perdono le giornate a compilare rogiti che non possono firmare, nelle università si ingrigiscono a fare centinaia e centinaia di esami a studenti ignoranti per conto di un docente assenteista, negli ospedali fanno a gara fra loro a chi riesce a far godere meglio il primario.”
“E’ vero,” riconosce l’ingegnere malinconico “mio figlio, invece, era un vero scienziato.”
Lo studente sogguarda il padre del disperso. Esita un attimo fra consolazione e verità, poi decide.
“Suo figlio, se mi permette, più che uno scienziato era un fanatico. Se per molti giovani italiani la via per la carriera è l’autoumiliazione, per lui l’unica via era la bibliometria, il conteggio delle pubblicazioni, quello che alcuni chiamano ‘il merito’, e che a ben vedere è un'altra forma di asservimento ossequioso: alla religione dominante, all’esattezza astratta, alla crudeltà del potere, alla teoria economica che da trent’anni suggerisce come punire i deboli per salvare i forti dal disastro che questi creano con le loro stesse mani. Una fede intensa lo portava a fondersi talmente bene con la sua materia da trascurare le cure essenziali del corpo. Non si procurava cibo in modo regolare, non si lavava se non casualmente: quando se lo ricordava, in una pausa tra un’equazione differenziale e un lagrangiano. Ma era felice così, anzi, rivelava spesso la sua soddisfazione profonda per il fatto che non abitava più in casa dei suoi genitori e non era più obbligato a seguire regole di nessun tipo. Era arrivato perfino a elogiare, di fronte a testimoni, la libertà di pisciare sul lavandino al mattino appena sveglio, come se questa innovazione equivalesse alla conquista della posizione eretta da parte di un primate. In conseguenza della felicità raggiunta, si aggirava sempre sudicio e sofferente come un malato terminale. Da qui il suo soprannome, Punturina, coniato da noi colleghi del master: agli animali in fin di vita si usa lenire le sofferenze, per pietà, con una punturina letale.”
L’ingegnere spalanca occhi e bocca e sbianca: “Ciò che Lei mi sta dicendo è cinico e disgustoso.”
“Le sto parlando di pietà, ingegnere. Suo figlio, semmai, era cinico e disgustoso, era il potenziale consulente di un dittatore.”
“E lei ha avuto pietà di lui” deduce l’ingegnere serrando la disperazione negli occhi.
“Capita, talvolta,” riflette lo studente calpestando il bordo dell’acqua “che l’esondazione del fiume ispiri azioni irrituali”.  

mercoledì 8 febbraio 2012

Dialogo con l'antenato




Caro amico homo sapiens del passato, siamo tutti e due sapiens, sia tu che io, il mio cervello non è migliore del tuo, e se vogliamo dirla tutta, il mio fisico è certamente atrofico se confrontato col tuo, e già tu sei piuttosto deboluccio anche soltanto a confronto col fisico del tuo gattino, ma per una circostanza indecifrabile che distribuisce geni nel tempo io mi ritrovo oggi, senza averlo nemmeno voluto, a sapere infinite più cose di te, a muovermi come un topo nel formaggio in un patrimonio di conoscenze e informazioni che per te sarebbe indigesto e soffocante, a dedicare il mio tempo ad attività di cui tu non capisci nemmeno lo scopo e l’utilità (che certe volte, ti confesso, persino io faccio fatica a mettere a fuoco), e mi trovo qui, seduto, insieme ad altri studenti di altre parti del mondo, ad aggiungere un infinitesimo tassello di conoscenza alla montagna accumulata nei millenni, e mentre penso a te che non mi conosci nemmeno, ascolto e cerco di assorbire quanto più possibile di ciò che mi racconta un altro tuo discendente, un po’ più anziano di me, che adesso sta parlando biascicando consonanti e sputacchiando saliva, come forse parlavi tu quando eri in vita, e mentre lui parla io penso a come saresti orgoglioso tu nel sapere che un tuo discendente, in questo momento, sta trasmettendo ai suoi discepoli un sapere che tu non sai, e forse tu, se dal basso della montagna potessi vederlo parlare, ti consoleresti retroattivamente di tutto il sangue che hai visto versare in guerre contro clan rivali, e consoleresti i membri del tuo clan, compreso il riottoso stregone, del fatto che l’umanità ha dimenticato le vostre tradizioni, la vostra cultura, la giustificazione che siete riusciti a darvi della vostra stessa esistenza, ti consoleresti del fatto che la civiltà Europea (che tu non hai mai conosciuto) sia andata progressivamente falcidiando civiltà sparse per il mondo che non avevano inventato la ruota, l’aratro, l’alfabeto, la lancia, la polvere da sparo, il cannone, l’aeroplano, la bomba atomica e la bomba intelligente, e che avevano tuttavia l’incomprensibile pretesa di esistere; forse ti consoleresti, è vero, o forse penseresti, come spesse volte penso io, che le nozioni che mi sta trasmettendo il tuo discendente sono buone soltanto a distogliere l’attenzione dai problemi seri, dove al concetto di problemi seri possiamo dare un’accezione prettamente scientifica, e io sarei disposto a discuterne, oppure possiamo intendere ciò che intendi tu, più saggiamente di tutti noi avanguardisti del progresso, quando ritieni che i problemi seri debbano riferirsi a ciò che conta davvero nella vita, cioè mangiare dormire e copulare, ipotesi che ancora oggi in molti, me compreso, considerano degna di rispetto, e allora ti chiederesti, insieme a me, per quale ragione abbiamo costruito questa immensa montagna mostruosa che ci schiaccia e ci occlude la visione del cielo, se in fin dei conti lo scopo della vita era raggiungibile già ai tuoi tempi, magari anche con minor sforzo (con riferimento soprattutto al terzo obiettivo).
Il professor G. ha finito la sua lezione. Gli studenti si alzano, raccolgono gli appunti, li insaccano e si avviano verso la pausa pranzo. Arnaldo segue lentamente il movimento collettivo, comprendendo che ancora una volta, nonostante i buoni propositi, è riuscito a distrarsi.