Incontrammo Spino quando ancora ci stavamo
allacciando le scarpe da trekking. Ci guardava con due occhi giocherelloni
persi in un ammasso di pelo. La sua coda roteava come una pala d’elicottero.
Livia era un po’ preoccupata. Perché ci seguiva? Non era pericoloso, così
enorme? Io naturalmente non sapevo rispondere, ma gli occhi del cane e la
sciabolate della sua coda mi convincevano a farmelo amico.
Salimmo lungo il sentiero insieme a Spino che
trotterellava avanti e indietro. Le sue zampe da orso lasciavano impronte sul
fango tanto più profonde quanto più intensa era la foga con cui partiva
all’inseguimento di sassi e i bastoni. Ogni tanto sprofondava il muso sotto il
tappeto di foglie dei castagni, a contemplare la quarta dimensione degli odori.
Sarebbe bello, pensavo, avere un cane come questo, da portarci dietro in
montagna la domenica. Bello ma ingombrante. Come avremmo potuto tenere una
fiera del genere nel nostro misero bilocale di città? Lui da solo
monopolizzerebbe il divano. Livia rispondeva con sorrisi afoni alle mie
fantasie mute.
Da qualche parte, nei dintorni, questo cane
doveva abitare, era troppo socievole per essere randagio, e noi probabilmente
ci stavamo allontanando troppo dal suo territorio. Nei pressi di una diga che
il nostro sentiero doveva attraversare, chiedemmo a un pastore se avesse mai
visto circolare Spino su quei versanti, ma il pastore non ne sapeva nulla. Si
offrì però di distrarlo e tenerlo con sé per lasciarci fuggire lungo il
passaggio pedonale sulla diga. Provammo così a eclissarci mentre Spino si
perdeva nei dettagli dei prati circostanti, ma appena con la coda dell’occhio
vide che stavo per chiudere la porta del passaggio, si lanciò in una corsa
sfrenata e non ci fu verso di farlo
desistere: aveva deciso di seguirci fino in cima.
Sulla cima del monte non prese d’assalto il
nostro cibo, ma aspettò accucciato che glielo offrissimo. Si accontentò di quel
poco di prosciutto, formaggio e pane compatibile con le nostre risorse. Lo feci
ruzzolare durante la pausa ristoratrice. Anche Livia era contagiata dalla mia allegria,
i suoi timori iniziali si dimostravano sempre meno fondati. Seduto accanto al
cane, mentre contemplavamo la vallata, parlai a Spino come se ci conoscessimo
da sempre. Guarda – gli dissi – la cappa d’inquinamento che avvolge la vallata.
Noi viviamo lì, nella camera a gas. Che cosa guadagneresti a seguirci? Non
sapremmo nemmeno dove metterti, così puzzone e intrasportabile. Però devo
dirtelo, Spino, se tu potessi venire a devastare la nostra casa, Livia e io non
saremmo più gli stessi, attireresti come un magnete tutte le nostre attenzioni,
e non ci sarebbe stanchezza o inquietudine a frenare la gioia di averti al
nostro fianco. Mentre parlavo, Spino mi mordicchiava la mano che avrebbe potuto
spezzare come un biscotto, e Livia aveva gli occhi lucidi.
Gli occhi
lucidi vennero anche a me, tornati a valle, nel vedere dallo specchietto
retrovisore Spino correrci dietro e perdersi dietro le curve asfaltate, come se
i suoi padroni non potessimo che essere noi, come se ci avesse cercati da tempo
vagando fra le alpi, come se volesse dirci qualcosa che non avevamo ancora
capito. Capimmo, infine, con un ritardo di due giorni: dal test di gravidanza
risultò che Livia era incinta.