mercoledì 29 febbraio 2012

Presagio



Incontrammo Spino quando ancora ci stavamo allacciando le scarpe da trekking. Ci guardava con due occhi giocherelloni persi in un ammasso di pelo. La sua coda roteava come una pala d’elicottero. Livia era un po’ preoccupata. Perché ci seguiva? Non era pericoloso, così enorme? Io naturalmente non sapevo rispondere, ma gli occhi del cane e la sciabolate della sua coda mi convincevano a farmelo amico.
Salimmo lungo il sentiero insieme a Spino che trotterellava avanti e indietro. Le sue zampe da orso lasciavano impronte sul fango tanto più profonde quanto più intensa era la foga con cui partiva all’inseguimento di sassi e i bastoni. Ogni tanto sprofondava il muso sotto il tappeto di foglie dei castagni, a contemplare la quarta dimensione degli odori. Sarebbe bello, pensavo, avere un cane come questo, da portarci dietro in montagna la domenica. Bello ma ingombrante. Come avremmo potuto tenere una fiera del genere nel nostro misero bilocale di città? Lui da solo monopolizzerebbe il divano. Livia rispondeva con sorrisi afoni alle mie fantasie mute.
Da qualche parte, nei dintorni, questo cane doveva abitare, era troppo socievole per essere randagio, e noi probabilmente ci stavamo allontanando troppo dal suo territorio. Nei pressi di una diga che il nostro sentiero doveva attraversare, chiedemmo a un pastore se avesse mai visto circolare Spino su quei versanti, ma il pastore non ne sapeva nulla. Si offrì però di distrarlo e tenerlo con sé per lasciarci fuggire lungo il passaggio pedonale sulla diga. Provammo così a eclissarci mentre Spino si perdeva nei dettagli dei prati circostanti, ma appena con la coda dell’occhio vide che stavo per chiudere la porta del passaggio, si lanciò in una corsa sfrenata  e non ci fu verso di farlo desistere: aveva deciso di seguirci fino in cima.
Sulla cima del monte non prese d’assalto il nostro cibo, ma aspettò accucciato che glielo offrissimo. Si accontentò di quel poco di prosciutto, formaggio e pane compatibile con le nostre risorse. Lo feci ruzzolare durante la pausa ristoratrice. Anche Livia era contagiata dalla mia allegria, i suoi timori iniziali si dimostravano sempre meno fondati. Seduto accanto al cane, mentre contemplavamo la vallata, parlai a Spino come se ci conoscessimo da sempre. Guarda – gli dissi – la cappa d’inquinamento che avvolge la vallata. Noi viviamo lì, nella camera a gas. Che cosa guadagneresti a seguirci? Non sapremmo nemmeno dove metterti, così puzzone e intrasportabile. Però devo dirtelo, Spino, se tu potessi venire a devastare la nostra casa, Livia e io non saremmo più gli stessi, attireresti come un magnete tutte le nostre attenzioni, e non ci sarebbe stanchezza o inquietudine a frenare la gioia di averti al nostro fianco. Mentre parlavo, Spino mi mordicchiava la mano che avrebbe potuto spezzare come un biscotto, e Livia aveva gli occhi lucidi.
Gli occhi lucidi vennero anche a me, tornati a valle, nel vedere dallo specchietto retrovisore Spino correrci dietro e perdersi dietro le curve asfaltate, come se i suoi padroni non potessimo che essere noi, come se ci avesse cercati da tempo vagando fra le alpi, come se volesse dirci qualcosa che non avevamo ancora capito. Capimmo, infine, con un ritardo di due giorni: dal test di gravidanza risultò che Livia era incinta.

mercoledì 22 febbraio 2012

Questioni di ciocca



“Dicono che laggiù in centro città sia pieno di infedeli.”
“Quelli che stanno dietro l’angolo con la macchina fotografica con lo zoom, pronti a fotografarti una ciocca di capelli?”
“Sì, quelli. Coprili bene, i capelli, ché se te li vedono non sanno resisterti e cominciano a salivare.”
“I miei capelli li vede solo quel coglione di mio marito.”
“Appunto, non vorrai mica che anche altri uomini si rincoglioniscano a causa tua.”
“Ma sembra che oggi gli uomini abbiano altro a cui pensare. Dicono che sia in corso una rivoluzione. Pare che partecipino anche le donne.”
“Donne disoneste?”
“Credo di sì. Tutte con le ciocche al vento.”
“Che schifo! Come fanno a non vergognarsi?”
“Pare che vendano le loro ciocche al migliore offerente.”
“E gli uomini cosa se ne fanno delle ciocche?”
“Le appendono nei camion e ci fanno i calendari. Gli studenti pare che le usino come segnalibri!”
“Miseria della filosofia!”
“E poi, quando nessuno li vede, si spennellano i Grundrisse!”
“Davvero? Credo bene che vogliono picchiare le mani! Hanno gli ormoni in agitazione.”
“Sono giovani, bisogna anche capirli. Finchè non prendono moglie non sanno chi picchiare.”
“In ogni caso stai attenta, quando li incontri, a non metterti in mezzo. Nascondi tutte le tue rotondità.”
“Ma io sono tutta rotonda. Me lo dice sempre quel coglione di mio marito.”
“E tu lo lasci dire? Io a quest’ora farei lo sciopero della ciocca.”
“Se ci provo lui mi toglie gli alimenti.”
“Porco maschio!”
“Ah, quello poi… mai assaggiato, neanche dopo il Ramadan.”
“Ma sei sicura di volere andare? Guarda che ci sono anche i soldati pronti a sparare sulla folla!”
“Sì, ma Allah sta con i soldati, non è vero? Se sta con i soldati, mi proteggerà dalle loro pallottole.”
“Sai cosa penso, però?….. io a questa storia di Allah…. insomma, mica ci credo tanto, sai?”
“Non dirmi che stai diventando cristiana.”
“No, no, dalla padella nella brace no! Non so come dirtelo… io non ho studiato, non so neanche leggere…. ma questa storia che c’è Allah che pensa a tutto, insomma, onestamente…. mi fa un po’…..”
“Una pippa?”
“Ecco, appunto!...”

mercoledì 15 febbraio 2012

Punturina


“Tu sostieni che mio figlio non è mai tornato in Italia. Come fai ad esserne sicuro?”
Camminano lungo i vicoli che l’esondazione del fiume non è riuscita a coprire. La pioggia biblica ha smesso di cadere, lo specchio dell’acqua comincia a ritrarsi.
 “Deve sapere, ingegnere, che Punturina – così lo chiamavamo qui a York – credeva nelle cose che studiava, credeva che fossero nozioni utili, sensate, di sicura applicazione a problemi concreti; credeva che il master in economics che stava frequentando gli avrebbe spalancato le porte della carriera universitaria. Non avrebbe mai potuto rientrare in Italia. Laggiù siete pieni di laureati tirocinanti che negli studi commercialistici vanno a fare la spesa per conto della moglie del titolare, negli studi notarili perdono le giornate a compilare rogiti che non possono firmare, nelle università si ingrigiscono a fare centinaia e centinaia di esami a studenti ignoranti per conto di un docente assenteista, negli ospedali fanno a gara fra loro a chi riesce a far godere meglio il primario.”
“E’ vero,” riconosce l’ingegnere malinconico “mio figlio, invece, era un vero scienziato.”
Lo studente sogguarda il padre del disperso. Esita un attimo fra consolazione e verità, poi decide.
“Suo figlio, se mi permette, più che uno scienziato era un fanatico. Se per molti giovani italiani la via per la carriera è l’autoumiliazione, per lui l’unica via era la bibliometria, il conteggio delle pubblicazioni, quello che alcuni chiamano ‘il merito’, e che a ben vedere è un'altra forma di asservimento ossequioso: alla religione dominante, all’esattezza astratta, alla crudeltà del potere, alla teoria economica che da trent’anni suggerisce come punire i deboli per salvare i forti dal disastro che questi creano con le loro stesse mani. Una fede intensa lo portava a fondersi talmente bene con la sua materia da trascurare le cure essenziali del corpo. Non si procurava cibo in modo regolare, non si lavava se non casualmente: quando se lo ricordava, in una pausa tra un’equazione differenziale e un lagrangiano. Ma era felice così, anzi, rivelava spesso la sua soddisfazione profonda per il fatto che non abitava più in casa dei suoi genitori e non era più obbligato a seguire regole di nessun tipo. Era arrivato perfino a elogiare, di fronte a testimoni, la libertà di pisciare sul lavandino al mattino appena sveglio, come se questa innovazione equivalesse alla conquista della posizione eretta da parte di un primate. In conseguenza della felicità raggiunta, si aggirava sempre sudicio e sofferente come un malato terminale. Da qui il suo soprannome, Punturina, coniato da noi colleghi del master: agli animali in fin di vita si usa lenire le sofferenze, per pietà, con una punturina letale.”
L’ingegnere spalanca occhi e bocca e sbianca: “Ciò che Lei mi sta dicendo è cinico e disgustoso.”
“Le sto parlando di pietà, ingegnere. Suo figlio, semmai, era cinico e disgustoso, era il potenziale consulente di un dittatore.”
“E lei ha avuto pietà di lui” deduce l’ingegnere serrando la disperazione negli occhi.
“Capita, talvolta,” riflette lo studente calpestando il bordo dell’acqua “che l’esondazione del fiume ispiri azioni irrituali”.  

mercoledì 8 febbraio 2012

Dialogo con l'antenato




Caro amico homo sapiens del passato, siamo tutti e due sapiens, sia tu che io, il mio cervello non è migliore del tuo, e se vogliamo dirla tutta, il mio fisico è certamente atrofico se confrontato col tuo, e già tu sei piuttosto deboluccio anche soltanto a confronto col fisico del tuo gattino, ma per una circostanza indecifrabile che distribuisce geni nel tempo io mi ritrovo oggi, senza averlo nemmeno voluto, a sapere infinite più cose di te, a muovermi come un topo nel formaggio in un patrimonio di conoscenze e informazioni che per te sarebbe indigesto e soffocante, a dedicare il mio tempo ad attività di cui tu non capisci nemmeno lo scopo e l’utilità (che certe volte, ti confesso, persino io faccio fatica a mettere a fuoco), e mi trovo qui, seduto, insieme ad altri studenti di altre parti del mondo, ad aggiungere un infinitesimo tassello di conoscenza alla montagna accumulata nei millenni, e mentre penso a te che non mi conosci nemmeno, ascolto e cerco di assorbire quanto più possibile di ciò che mi racconta un altro tuo discendente, un po’ più anziano di me, che adesso sta parlando biascicando consonanti e sputacchiando saliva, come forse parlavi tu quando eri in vita, e mentre lui parla io penso a come saresti orgoglioso tu nel sapere che un tuo discendente, in questo momento, sta trasmettendo ai suoi discepoli un sapere che tu non sai, e forse tu, se dal basso della montagna potessi vederlo parlare, ti consoleresti retroattivamente di tutto il sangue che hai visto versare in guerre contro clan rivali, e consoleresti i membri del tuo clan, compreso il riottoso stregone, del fatto che l’umanità ha dimenticato le vostre tradizioni, la vostra cultura, la giustificazione che siete riusciti a darvi della vostra stessa esistenza, ti consoleresti del fatto che la civiltà Europea (che tu non hai mai conosciuto) sia andata progressivamente falcidiando civiltà sparse per il mondo che non avevano inventato la ruota, l’aratro, l’alfabeto, la lancia, la polvere da sparo, il cannone, l’aeroplano, la bomba atomica e la bomba intelligente, e che avevano tuttavia l’incomprensibile pretesa di esistere; forse ti consoleresti, è vero, o forse penseresti, come spesse volte penso io, che le nozioni che mi sta trasmettendo il tuo discendente sono buone soltanto a distogliere l’attenzione dai problemi seri, dove al concetto di problemi seri possiamo dare un’accezione prettamente scientifica, e io sarei disposto a discuterne, oppure possiamo intendere ciò che intendi tu, più saggiamente di tutti noi avanguardisti del progresso, quando ritieni che i problemi seri debbano riferirsi a ciò che conta davvero nella vita, cioè mangiare dormire e copulare, ipotesi che ancora oggi in molti, me compreso, considerano degna di rispetto, e allora ti chiederesti, insieme a me, per quale ragione abbiamo costruito questa immensa montagna mostruosa che ci schiaccia e ci occlude la visione del cielo, se in fin dei conti lo scopo della vita era raggiungibile già ai tuoi tempi, magari anche con minor sforzo (con riferimento soprattutto al terzo obiettivo).
Il professor G. ha finito la sua lezione. Gli studenti si alzano, raccolgono gli appunti, li insaccano e si avviano verso la pausa pranzo. Arnaldo segue lentamente il movimento collettivo, comprendendo che ancora una volta, nonostante i buoni propositi, è riuscito a distrarsi.

mercoledì 1 febbraio 2012

Linguistica


Serata fiacca nel campus di York: nessun party dove andare a infrattarsi, nessuna iniziativa galvanizzante. John è assorto in contemplazione di un tappeto di appunti che ha squadernato sul tavolo della cucina in una delle case della comunità tribale di St. Lawrence Court. Arnaldo, quasi distrattamente, gli ha chiesto qual è l’oggetto dei suoi studi, e nella risposta ha potuto assistere allo scoccare di una scintilla, che ha illuminato di vita lo sguardo solitamente ittico dell’inglese.
“Studio linguistica” chiarisce John guardando amorevolmente i suoi papiri intrisi d’inchiostro.
“Bella materia. Il linguaggio è il primo e più importante prodotto intellettuale dell’uomo.”
“Precisamente, e io ne studio la sintassi universale. Stiamo creando un linguaggio che possa tradurre in simboli e connessioni logiche tutti i linguaggi ordinari di tutti i tempi.”
Arnaldo getta uno sguardo ai fogli sparsi sul tavolo. Sono tutti scarabocchiati con formule algebriche di varia natura. John interpreta lo sguardo perplesso di Arnaldo come un segno d’interesse, e decide di spiegargli di che cosa si tratta.
“Se vuoi ti faccio un esempio. Prova a dirmi una frase, anche se non significa nulla: io analizzo esclusivamente la struttura logica.”
“Vediamo un po’….. Appena lui le amalava il noema, a lei sopraggiungeva la clamise e cadevano in idromorrie, in selvaggi ambani, in sossali esasperanti”.
“Non ne hai una più semplice? Una frase da primi rudimenti del linguaggio, qualcosa che tutti gli uomini di tutti i tempi avrebbero potuto dire.”
Arnaldo pensa un attimo, e poi propone: “Questa pietra è più dura della mia testa”.
“Ottimo” esulta John, e scrive le parole esatte, in lingua inglese, su un foglio di carta bianco. Contempla poi la frase scritta, inarcando le sopracciglia e ruotando leggermente la testa in senso orario e in senso antiorario, poi riprende in mano la penna e si tuffa in una catena di passaggi. Nella riga sotto, la frase è subito trasformata in una stringa di simboli in connessione reciproca. Non soddisfatto, John ritrasforma i simboli in altri simboli, e mentre scrive spiega ad Arnaldo il significato logico di ciò che sta scrivendo, ma tenendo gli occhi fissi sul foglio, come se non stesse parlando ad Arnaldo, e infatti Arnaldo comincia a non seguirlo più, mentre assiste allo sviluppo grafico di un albero che si ramifica, e ogni ramo a sua volta si moltiplica in altri alberi dove John appende altri simboli, sempre spiegando a se stesso di che cosa si tratta, e così compaiono voraci operatori “lambda”, insettiformi funzioni di massimizzazione, disgustose macchie d’inchiostro inintelligibili. Conclusa la traduzione, John ha riempito un intero foglio A4. Medita ancora qualche secondo, ruotando la testa in senso antiorario, poi in senso orario. Alza infine gli occhi dal suo prodotto e mette a fuoco il volto instupidito di Arnaldo.
“Anch’io parlo così?” gli chiede Arnaldo.
“Tutti” risponde l’inglese con un gioioso gridolino affermativo.