mercoledì 25 gennaio 2012

Autostrada



“Popolo di ignoranti caproni teste di legno sbruffoni ottusi individualisti prepotenti! Non avete il senso della cosa pubblica, non avete il senso della civiltà, non riuscite a rispettare una sola regola che sia una. Il dovere è sempre degli altri, mai vostro! Perché ciascuno di voi è l’eccezione, e si sente in diritto di violare le regole, e siccome tutti violano le regole, il sistema giocoforza funziona da schifo.”
Norberto guardava con disprezzo le macchine incolonnate nelle due corsie alla sua sinistra. Lui guidava sulla corsia dei veicoli lenti, che era vuota (“ovviamente, popolo di ottusi!”), ma andava alla stessa velocità delle macchine alla sua sinistra, che avrebbero gradito andare più veloci, ma si trovavano incolonnate in modo che ognuna rallentava l’andatura dell’altra. Avevano un bel lampeggiare, poi, i bolidi sulla corsia di sorpasso: nessuno li faceva passare. Norberto li guardava di traverso e sghignazzava.
“Lampeggiate, eh?, bastardi evasori fiscali! E dove li avete trovati i soldi per comprarvi questo vostro trabiccolo succhia petrolio? Ma lo sapete che tra poco di petrolio non ce ne sarà più? Cosa metterete dentro quella voragine? I vostri escrementi?”
E mentre se la rideva, sorpassava ad una ad una da destra le macchine della corsia congestionata al suo fianco. “E’ illegale sorpassare da destra? E vabbé!...” e superava una lunghissima BMW, “E’ altrettanto illegale occupare la corsia di mezzo se quella di destra è vuota…” argomentava con sguardo didattico al conducente di una Volvo aggressiva che non poteva sentirlo, “Per voi guidare sulla corsia dei veicoli più lenti è umiliante? E allora arrangiatevi e andate tutti come lumache!” Concludeva lasciandosi alle spalle un torello Ford.
Dalla corsia di sorpasso, un bolide di dimensioni preistoriche decise di incunearsi nella corsia di mezzo, attraverso un varco che lasciava un confortevole spazio di due centimetri  di distanza dalla macchina davanti e tre da quella dietro. Dopo svariati lampeggiamenti, si risolse per la corsia degli umili, e in una sgasata petrolifera si ritrovò a due centimetri dal cofano di Norberto.
“Ah, eccoti qui, panzone! Ti aspettavo! Che fai adesso? Mi lampeggi? E dove ti dovrei cedere la strada? Alla mia destra ci sono i campi di riso, perché non ci vai tu e mi superi, così la prostituta ingioiellata che è seduta al tuo fianco si metterà a tintinnare di eccitazione?” e mentre proferiva queste parole gli fece con la mano un segno beffardo di comprensione ma di impotenza. Ottenne in cambio un’illuminazione quasi diurna colpirgli l’iride dallo specchietto retrovisore. Il gesto di comprensione, allora, mutò in un gesto poco elegante e ben visibile grazie all’ausilio degli abbaglianti. Sentì sgasare ulteriori petroldollari e vide il bolide avvicinarsi al suo fianco sinistro, il panzone affannato in evidenti segni di inimicizia al suo indirizzo.
“Perché la prossima volta non prendi lo Yacht per tornare Milano?” gli urlò da dietro il finestrino, e mentre lo diceva non fece in tempo a vedere la targa del camion su cui si accartocciò. L’ultimo sguardo di disprezzo, prima di perdere i sensi in mezzo alle risaie del novarese, lo dedicò a tutti gli evasori fiscali che aveva appena superato e che proseguivano nel loro sereno rientro.

mercoledì 18 gennaio 2012

Quindici



Sono ormai quindici anni che, almeno due volte a settimana, vado a trovare mio fratello recluso nel suo appartamento. Se fa bel tempo passiamo qualche ora a parlare su in terrazzo, dove la vista domina l’intera città. L’unico spiraglio di aria aperta che mio fratello si concede è una boccata di polveri sottili: il resto delle ore le passa chiuso in casa. Io gli porto la spesa, gli tengo compagnia, e lui mi invita a salire in terrazzo a guardare le case lontane, a studiare come è cambiata la città negli anni. Non esce mai. Da quindici anni non ha più messo piede sulla strada. Mai una volta. Me le elenca tutte, le ragioni, compresa quella più importante, il che dimostra che psicopatico, mio fratello, non è.
Non vuole mai più incontrare la ragazza che l’ha lasciato. Questa è la vera ragione, da lui riconosciuta e analizzata in piena lucidità. Ha sempre sostenuto che sarebbe insopportabile, per lui, anche solo incrociarla per strada. Sa bene che è altamente improbabile imbattersi in lei in una città grande come la nostra, con il suo ordito di vicoli che si intrecciano fino alla riva del mare. Ma per quanto infinitesima sia questa probabilità, esiste pur sempre un esilissimo margine di rischio che mio fratello possa per caso un giorno vederla assorta davanti alla vetrina di un negozio, o peggio ancora, discutere per strada insieme all’usurpatore che gliel’ha portata via. Li ha visti una volta, quindici anni fa, i due amanti abbracciarsi all’ombra degli alberi del parco pubblico, complice una luna ormonale. Aveva urlato come una bestia straziata da un arma da fuoco, quella notte, mentre le correva incontro, dando così il tempo all’amante sconosciuto di scappare, e facendo scappare con lui anche l’amore di lei. Quella fu l’ultima notte in cui mio fratello fu visto metter piede fuori dalle mura di casa sua. Io, in questi anni, l’ho sempre aggiornato su alcuni eventi salienti della vita della sua prima e ultima donna, nel tentativo vano di convincerlo a dimenticarla.
Oggi, invece, salito in terrazzo, dopo tanti mesi di silenzio sull’argomento, gli ho riferito che la sua donna è tornata sola, senza nessuno, e mi sono permesso di alludere al fatto che lei avrebbe proprio bisogno di una nuova fiammata d’amore. L’ho invitato ad approfittarne, a riannodare i fili del passato. Quindici anni, visti dalla fine, non sono ancora un’eternità. Mio fratello però è decisamente testardo. Mi ha detto che è impossibile: lui conserva il ricordo di una donna giovane e avvenente, nel fiore degli anni; adesso lei sarà un fiore in via di appassimento, avrà perso l’incanto dei suoi occhi di un tempo, tre gravidanze avranno prosciugato quel suo corpo sodo, avrà smarrito il fascino nella lotta per la sopravvivenza. No grazie – mi ha detto – preferisco ricordarmela come l’avevo conosciuta. Alla nostra età i ricordi cominciano a pesare più delle esperienze vissute, e dopo queste parole si è rifiutato di discutere oltre.
Eccomi a casa, dunque, a dare la triste notizia a mia moglie. Niente da fare – le dico – mio fratello non vuole nemmeno prendere in considerazione l’idea di rivederti. Mentre lei si prepara ad andare a letto, la sento singhiozzare dietro la porta. Ci tocca andare avanti così, mia cara, tu a non darmi più piaceri, io a non darti dispiaceri.

mercoledì 11 gennaio 2012

Il nettare dei fiori

 
 
“Davvero?” Paolina sgranò un gran paio d’occhi color caffè. Il suo amico Alberto la guardò con sufficienza, quasi sbuffando di noia.
“L’anno prossimo vedrai, a scuola te le spiegheranno per bene, queste cose.”
“E che cosa ci fanno le api con il polline dei fiori?” insistette Paolina con ostinata curiosità.
“Non so se posso dirtelo” tagliò corto Alberto accendendosi una sigaretta, “Se i tuoi genitori sanno che te l’ho detto…..”
“Non sapranno niente” giurò Paolina. Dovette insistere un po’, ma alla fine ottenne la risposta che cercava. Appena Alberto le rivelò l’arcano, Paolina fu presa da un misto di orrore e ilarità. Non sapeva se credere ancora una volta ad Alberto, talmente assurda le pareva la sua rivelazione. I fiori, per riprodursi fra loro, hanno bisogno dell’assistenza delle api, delle farfalle, degli insetti, cui affidano il compito di trasportare il polline ad altri fiori.
“E per remunerare il servizio” sottolineò il navigato Alberto “offrono agli insetti il loro nettare profumato e irresistibile.”
“Ma allora” balbettò Paolina “nessuno mi ha mai detto la verità su come nascono i bambini.”
“Evidentemente no, ai piccolini si raccontano favole per evitare argomenti imbarazzanti.”
“Ma io…. io ho sempre creduto che mio papà avesse inseminato mia mamma introducendo il suo pene eretto nella di lei tenera vagina.”
Alberto scoppiò a ridere fragorosamente fin quasi ad ingoiare la sigaretta.
“Bella mia” sillabò tra un singhiozzo e un singulto “ne hai di strada da fare prima di crescere. Brava, brava! E tu credi ancora a queste balle? I bambini che nascono così, da una semplice trombatina?”
“Io pensavo che dopo una serie abbastanza insistente…. nei giorni giusti…”
“Povera illusa! Queste cose seguono le leggi della natura. Non dovrebbe essere imbarazzante raccontare ai bimbi, anche ai piccoli, come funzionano le cose in natura.”
“Allora la mia mamma e il mio papà si sono comportati come i fiori.” collegò Paolina  “Anche loro hanno pagato la dottoressa Shultz con un profumato nettare, tratto dal loro conto in banca, affinchè prendesse il seme dalle gonadi di mio papà e lo depositasse nell’ovulo della mamma. E’ così che sono nata io.”
“In un certo senso…” annuì Alberto aspirando una lunga boccata, lo sguardo distratto rivolto al tramonto.


mercoledì 4 gennaio 2012

Conversazioni con i pirati


Per placare la mia agitazione, mi distesi sul telo sudicio dove mi ero abituato a riposare e mi lasciai rinfrescare dalla timida brezza notturna. Rivolgevo lo sguardo verso l’uscio aperto. Era una notte placida, stellata, che nel suo silenzio risuonava di echi lontani e teneva tutto unito: passato, presente, occidente, oriente.  L’affanno dei vivi, pensavo, si acquieta di notte, diventa improvvisamente privo di significato: ogni battaglia per il pane o per un’idea si eclissa nell’ora in cui a prevalere sono l’eternità e la lontananza. Di giorno noi ci illudiamo di vedere con chiarezza, ma vediamo soltanto le cose che ci stanno vicine. Ma è di notte che, davvero, si può guardare lontano verso l’irraggiungibile, l’inconquistabile. Così avviene con i pensieri e le preoccupazioni. Quelli del giorno sono bassi, servili, contingenti, effimeri; quelli della notte, se riescono a vincere la stanchezza fisica, sono capaci di elevarsi verso l’alto a sfiorare questioni eterne, o di sprofondare nell’esplorazione interiore dell’essenziale, che poi è la stessa cosa.
Avevo smesso da tempo di provare piaceri e dispiaceri. Probabilmente non avevo mai provato vere e proprie passioni. Non so se posso dire di avere veramente amato la donna che mi aveva dato due figli. Certamente qualcosa non era funzionato nel rapporto con i miei figli, che avevano ormai raggiunto l’età adulta. Né loro, né mia moglie manifestavano più il bisogno della mia presenza nella loro vita. Visto in questa prospettiva, l’arrembaggio pirata aveva almeno un aspetto positivo: mi aveva sollevato dal dispiacere di tornare al mio posto nella capitale. 
Era vero, pensavo, che nella mia vita, fino al giorno dell’arrembaggio, avevo ubbidito a una gerarchia di leggi, idee e autorità a cui da tempo avevo smesso di credere. Ma non immaginavo quale voragine le conversazioni con i pirati avrebbero potuto aprire. Questo manipolo di fuori legge non aveva fatto altro che mettermi di fronte allo specchio, ad esaminare per la prima volta senza veli la mia stessa coscienza. Di fronte alla loro accusa di connivenza col regime, che in cambio di pane pretendeva torpore, quel giorno avevo dichiarato di essermi trascinato per tutta la vita il peso del dubbio senza mai esprimerlo. Adesso, illuminato dalla notte, capivo meglio che cosa esattamente non avevo mai saputo esprimere. Non era solo il dubbio astratto su che cosa fosse giusto o sbagliato. Si trattava, più precisamente, della sensazione di essermi perduto. Nella notte le cose lontane si vedono con chiarezza.
Tutti i veli che mi impedivano di vedere nitida l’immagine di me stesso stavano afflosciandosi uno ad uno, ma quando riuscii a lacerarli tutti, mi accorsi che non restava più alcuna immagine da vedere. Adesso che per il mondo conosciuto ero morto, non avevo più obblighi, non avevo doveri, non avevo convenzioni da rispettare, non avevo una vita da salvaguardare. Per la prima volta dall’arrembaggio, non avevo più paura di morire, non avevo più paura dei pirati. Per la prima volta nella mia vita, non avevo più paura.
Guardavo le stelle fra le foglie degli alberi, camminando senza meta, nudo, selvaggio e diseducato.