mercoledì 28 marzo 2012

Pensieri



“Cosa c’è in cima ai miei pensieri?” disse Marta quasi ad alta voce, e istintivamente guardò in alto.
“Un lampadario!” disse il suo collega, il Grigio, vedendo che Marta si era soffermata a guardare quel lampadario di pezza scolorita che troneggiava sulle loro teste.
“No” rispose Marta al Grigio, “Dico in cima in cima, più in alto.”
“Oltre il soffitto?” chiese il Grigio.
“Certo, mica si fermeranno al soffitto, i pensieri!...”
“Ma i pensieri non si vedono.” provò a obiettare il Grigio.
“Massì che si vedono” e Marta si alzò dalla sua scrivania. Si avvicinò tacchettando al finestrone dell’ufficio. Il Grigio la guardava forzare la finestra, ma questa era chiusa a chiave.
“C’è l’aria condizionata” le disse.
“E chi se ne frega?” fu la risposta “Mi aiuti ad aprirla?”
Il Grigio non obiettò nulla, si alzò dal suo computer e si avvicinò alla finestra. Aveva un debole per Marta. Anche lei si vestiva di grigio quando veniva in ufficio, ma si vedeva che lo faceva per non dar nell’occhio. Puro camaleontismo. Il Grigio invece era sempre grigio, anche la domenica. Per questo era attratto da Marta colorata. Fece finta di aiutarla ad aprire quella finestra, ma sapeva che era impossibile.
“Bisognerebbe chiedere la chiave al capo” suggerì infine.
“No, eccoli….” esultò Marta, e si attaccò col naso al vetro. Il Grigio, che era anche un po’ miope, provò a guardare fuori, accanto a lei.
“Vedi i tuoi pensieri?” le chiese. Lei indicò col dito una nuvola di storni in volo. Scattavano in ogni direzione: a destra a sinistra, in su, in giù, e la nuvola era una continua fantasia di forme. Il Grigio, che oltre a essere grigio e miope, era anche un po’ corto d’immaginazione, non riusciva proprio a vederli, i pensieri di Marta. Strizzò gli occhi per affilare lo sguardo, ma niente. Gli storni scattando formavano un’onda, no, una montagna, no, un arcobaleno, no, una grotta, no, un pallone, no, un fungo. Marta ne era estasiata, mentre il Grigio la osservava intontito.
“Stai guardando gli uccelli?” le chiese incredulo, finalmente miracolato dall’intuizione. Marta annuì sbadata, senza degnarlo di uno sguardo. Gli storni intanto si erano tutti poggiati sui quattro alberi della piazza, ma per un breve attimo. Poi uno di loro, quello che indovina per primo ciò che tutti gli altri stanno pensando, spiccò il volo, e con un palpitare d’ali la luce del cielo fu di nuovo oscurata. Quando la nuvola sparì sopra il tetto del palazzo, Marta si girò verso il Grigio, che oltre a essere grigio, miope, corto d’immaginazione e un po’ tonto, era anche sudato. Gli bevve il sudore che gli imperlava le labbra, e tornò a sedere dietro il monitor.
Quella sera il Grigio ritrovò la sua macchina orribilmente scagazzata, ma non ebbe il coraggio di portarla a lavare.

mercoledì 21 marzo 2012

Vecchio



Che cos’hai nelle orecchie? Com’è che si chiama? iPod? Che significa iPod? Perché la maiuscola è la seconda lettera e non la prima? Quella “i” è un articolo determinativo plurale? No, è l’iniziale di una parola. Come dici? Anche iPhone si scrive così? Anche iCloud? E iPad? Ma che vuol dire quella “i”? Ah, non si dice “i”, si dice “ai”. E’ inglese? Ma in inglese che significa? Dici che non è importante. E lì, dentro quell’ostia, ci entra tutta la musica? Non tutta, dici, ma tanta. E con quell’altro suppostone puoi anche parlare con qualcuno al telefono? E anche se lo tieni sull’orecchio, quell’altro riesce a sentire? Con chi parli adesso? Ah, è tua mamma. Le dici di buttare la pasta ché stai arrivando. Mai più senza suppostone! E quella specie di tegola, dici che non è una tegola. E’ uno schermo che ti fa vedere tutto. Non tutto, dici, ma molto. Tutto il mondo che sta su internet, giusto? E’ così che si chiama: iNternet? Con la n maiuscola? Ah, no, non c’entra. Perché me lo punti addosso? Mi hai fatto una foto? una iPhoto? Non si dice così. E dov’è la pellicola? E’ lì dentro? Se la tiri fuori si brucia? Non si brucia? Non è una pellicola? E che cosa porti a sviluppare? Cosa cosa cosa? Quello sono io? Già sviluppato? Altro che sviluppato, sono anche un bel po’ invecchiato…. Eh eh, scusa il calambour. E adesso con quella iPhoto che fai? Dov’è che la metti? Facebook? Un libro di facce? Mancava la mia faccia? No, dici che non c’entrano le facce. Allora perché metti la mia? Per farla vedere agli amici? Vi vedete oggi, tu e i tuoi amici? Lasciami indovinare: vi incontrate per una merenda a base di vin brulé e castagne, e guardate il libro delle facce. Cosa dici? Non è un libro? Non si porta? Ognuno può vederlo da casa. Quindi non vi incontrate, tu e i tuoi amici? Cosa significa che siete sempre connessi? Ah, sì, questo forse lo so: usate il calcolatore elettronico. Non si chiama così? E il vin brulé e le castagne? Ognuno a casa sua, dici. E come fate a parlarvi? Vi scrivete, soprattutto. Bella idea! Sai quanti pensieri spuntano fuori in una lettera? Come? Non vi scrivete lettere? E allora cosa vi scrivete? Ah, messaggi brevi. E voi sprecate un francobollo per messaggi di poche righe?.... Che dici? Non li spedite? Siete capaci di leggerli sempre restando a casa, ognuno davanti al suo calcolatore elettronico. Ma ogni tanto vi vedete, con gli amici con cui sei connesso? Li inviti mai a casa tua a bere un vin brulé? Non si beve più il vin brulé? Vabbè, a bere qualcosa…. Che cosa hai detto? Quanti amici hai? Trecentocinquantasette, e in progressivo aumento? Ma siete già un piccolo esercito. Allora credo bene che non li inviti a casa! Potreste riempire un teatro. Sì, un teatro, hai presente quelle sale piene di sedie di fronte a un palco? Certo, tutti zitti, parlano solo gli attori sul palco. Dici che non fa per voi? E perché mai? Troppo tempo concentrati? Certo, d’accordo, ognuno deve poter parlare, ma c’è qualcuno che ascolta? Va bene, mi correggo, scrivete, ma c’è qualcuno che legge? E poi chi decide che cosa è più importante e che cosa meno? Selezione naturale, dici? Chi è più clickato è più bravo? Davvero? Quindi anche voi fate come i giocatori di borsa: la vostra intelligenza è rivolta ad indovinare come l’opinione media immagina che sia fatta l’opinione media. Bella frase, vero? No, non è mia, è di un vecchio dinosauro che non legge più nessuno. Forse quando neanch’io ci sarò più, quella frase non sarà mai stata scritta. Ciao, uccellino, vado a bermi un vin brulé.

mercoledì 14 marzo 2012

Dura lex



Diversi strati di maglie e cappotti facevano apparire il barbone come un armadio ambulante. Bastava un solo movimento della mano a liberare un effluvio di latrina impastata ad alcool e chissà a quale altra esotica essenza corporea. E la mano si muoveva eccome! Era un continuo scribacchiare appunti su un quaderno logoro poggiato su un tavolino raccolto fra i rifiuti dell’immondizia. Davanti al barbone, sul passaggio d’asfalto lungo il fiume, ai margini della città, era una fila di miserabili, pazienti e infreddoliti.
Il signor Tronchetti, quando si trovò di fronte all’armadio scribacchino, cercò all’inizio di trattenere il respiro, ma capì subito che respirare senza svenire doveva costituire parte della prova.
“Ho visto il tuo curriculum” biascicò il barbone senza guardarlo negli occhi. L’odore dell’alcool metabolizzato diede al signor Tronchetti un bruciore al fegato. “Qui c’è scritto che sei stato classificato allievo di fascia A sia alle elementari che alle medie. Poi hai fatto il liceo in un collegio svizzero, ottenendo un diploma di maturità a pieni voti. Infine una laurea tedesca con lode e bacio accademico.”
“E’ esatto” riuscì a dire Tronchetti.
“Poi sei stato manager esecutivo di un’importante impresa multinazionale.”
“E’ esatto.” Squittì il signor Tronchetti deglutendo una goccia di saliva amara.
“E perché hai perso il lavoro?” inquisì il barbone, questa volta rivolgendo al signor Tronchetti un’occhiata liquida e iniettata di sangue.
“Perché non sono riuscito a far salire le quote azionarie al di sopra dell’obiettivo prestabilito per la fine dell’anno fiscale.”
“E dopo aver perso il lavoro non sei riuscito a riqualificarti? Sai com’è, la flessibilità….”
“Ci ho provato, dottore. Ho provato a fare il musicista, il filosofo, il matematico. Ho anche aperto un blog di racconti ma sul web nessuno viene a farmi visita. Sono un perfetto anonimo.”
“Hai provato col porno?” suggerì il barbone, “Ma no…. con quella faccia… caro mio sfigato, la legge del mercato è dura ma è la legge! Dimmi, per quale ragione dovrei fidarmi di te?”
“Perché…” La voce del signor Tronchetti diventò affannata e supplichevole. “…non so più dove andare….. ho dovuto vendere la casa a un prezzo stracciato…  e sono ancora carico di debiti….”
Il barbone finì di compitare sul quaderno. Scriveva come un bambino delle elementari, alzando continuamente i gomiti e generando crescenti ondate del suo olezzo calorifico. Poi dichiarò:
“Mi spiace, non sei abbastanza qualificato. Su questa strada non c’è posto per te. La concorrenza… sai com’è…. Vai a dormire da qualche altra parte.” E a voce più alta scatarrò: “Avanti il prossimo”.
Il signor Tronchetti si avvicino al limite della lingua d’asfalto, diede un’ultima occhiata alle ciminiere su cui un tempo aveva comandato, poi si voltò verso le macchine parcheggiate al confine tra la civiltà e l’ignoto. Sospirò e si risolse per il fiume. Lo schiocco del ghiaccio che si infrange fece tendere l’orecchio al barbone. La leggera torsione del suo collo di crostaceo fece piegare in due il candidato successivo.

mercoledì 7 marzo 2012

1/3/2012



Sono uscito presto la mattina, la testa piena di pensieri. Ho scansato macchine e giornali, incluso un toro intelligente che si era fermato col rosso. Volevo sbrigarmi e tornare in fretta a casa, perché – pensavo –  tanto oggi è come ieri. A casa avrebbe dovuto attendermi una notte sempre uguale, senza chitarre, da fine carnevale. E invece le chitarre si sono messe a suonare fin dal mattino, e suonavano il piano di Dalla-Monk, il sax di Dalla-Coltrane, la voce di Dalla Lucio, il clarino lunare, ma io non ne sapevo niente. Me l’ha detto una collega di lavoro, che te ne sei andato. Sei partito adesso, partito scalzo, partito in mutande. Ma come, partito? Non era il momento! Mettiamo che ti dovessi parlare, cosa debbo fare? Scriverti? Sono corso ad accendere il mio computer, il mio cuore, il mio televisore. Lì dentro è salvata l’ultima immagine che ho catturato di te, appesa a un muro tedesco insieme a quella di un altro mito della musica italiana (che legittimamente, se leggesse queste righe, dovrebbe concedersi una grattatina). Il concerto sarà cancellato, e quel treno Palermo-Francoforte non dovrai prenderlo più.
Poi a casa, finalmente. Questa sera è così strana e profonda che lo dice anche la radio – anzi, lo manda in onda. Ascoltatori telefonano, testimoniano, con commozione, con tenerezza. Le parole cadono tra le tante che diciamo, guarda per terra quante ce n’è. E intanto tu corri dietro al vento, e sembri una farfalla, e poi ragioni giusto, seguendo il volo degli uccelli e il loro ritmo lento, e forse hai già trovato dove puoi nascere e morire con l’odore della neve. Oppure sei triste anche tu, solo davanti a tutti i campanelli, così solo che ti metti a suonare. Qui nessuno ti può sentire, siamo tutti impegnati a riascoltare le tue canzoni, con affetto. E’ l’amore silenzioso dei pesci. E tu sei solo – ci pensi? – da solo, a guardare le stelle. Ma che andassero a cagare!
Resto qui, dunque. La notte sta morendo, ed è cretino cercare di fermare le lacrime ridendo. Con gli occhi tondi e neri e fondi, guardo ancora quella mia foto della tua foto incrociata sul muro tedesco, quel giorno in cui tutti gli altri italiani ti hanno visto in TV dirigere l’orchestra a Sanremo. Lassù, invece, ti ho visto solo io. Mi sembra come una confidenza, un piccolo privilegio, come se ti avessi conosciuto di persona. Poi la vita ti è passata accanto, con le mani ti ha salutato e ti ha fatto bye bye. E ora so per certo che non puoi staccarti da quel muro e poi venire giù. Con noi.
Allora semplicemente, caro amico, ciao a te, alla tua puzza di piedi, ai tuoi peli sulle mani.