mercoledì 4 gennaio 2012

Conversazioni con i pirati


Per placare la mia agitazione, mi distesi sul telo sudicio dove mi ero abituato a riposare e mi lasciai rinfrescare dalla timida brezza notturna. Rivolgevo lo sguardo verso l’uscio aperto. Era una notte placida, stellata, che nel suo silenzio risuonava di echi lontani e teneva tutto unito: passato, presente, occidente, oriente.  L’affanno dei vivi, pensavo, si acquieta di notte, diventa improvvisamente privo di significato: ogni battaglia per il pane o per un’idea si eclissa nell’ora in cui a prevalere sono l’eternità e la lontananza. Di giorno noi ci illudiamo di vedere con chiarezza, ma vediamo soltanto le cose che ci stanno vicine. Ma è di notte che, davvero, si può guardare lontano verso l’irraggiungibile, l’inconquistabile. Così avviene con i pensieri e le preoccupazioni. Quelli del giorno sono bassi, servili, contingenti, effimeri; quelli della notte, se riescono a vincere la stanchezza fisica, sono capaci di elevarsi verso l’alto a sfiorare questioni eterne, o di sprofondare nell’esplorazione interiore dell’essenziale, che poi è la stessa cosa.
Avevo smesso da tempo di provare piaceri e dispiaceri. Probabilmente non avevo mai provato vere e proprie passioni. Non so se posso dire di avere veramente amato la donna che mi aveva dato due figli. Certamente qualcosa non era funzionato nel rapporto con i miei figli, che avevano ormai raggiunto l’età adulta. Né loro, né mia moglie manifestavano più il bisogno della mia presenza nella loro vita. Visto in questa prospettiva, l’arrembaggio pirata aveva almeno un aspetto positivo: mi aveva sollevato dal dispiacere di tornare al mio posto nella capitale. 
Era vero, pensavo, che nella mia vita, fino al giorno dell’arrembaggio, avevo ubbidito a una gerarchia di leggi, idee e autorità a cui da tempo avevo smesso di credere. Ma non immaginavo quale voragine le conversazioni con i pirati avrebbero potuto aprire. Questo manipolo di fuori legge non aveva fatto altro che mettermi di fronte allo specchio, ad esaminare per la prima volta senza veli la mia stessa coscienza. Di fronte alla loro accusa di connivenza col regime, che in cambio di pane pretendeva torpore, quel giorno avevo dichiarato di essermi trascinato per tutta la vita il peso del dubbio senza mai esprimerlo. Adesso, illuminato dalla notte, capivo meglio che cosa esattamente non avevo mai saputo esprimere. Non era solo il dubbio astratto su che cosa fosse giusto o sbagliato. Si trattava, più precisamente, della sensazione di essermi perduto. Nella notte le cose lontane si vedono con chiarezza.
Tutti i veli che mi impedivano di vedere nitida l’immagine di me stesso stavano afflosciandosi uno ad uno, ma quando riuscii a lacerarli tutti, mi accorsi che non restava più alcuna immagine da vedere. Adesso che per il mondo conosciuto ero morto, non avevo più obblighi, non avevo doveri, non avevo convenzioni da rispettare, non avevo una vita da salvaguardare. Per la prima volta dall’arrembaggio, non avevo più paura di morire, non avevo più paura dei pirati. Per la prima volta nella mia vita, non avevo più paura.
Guardavo le stelle fra le foglie degli alberi, camminando senza meta, nudo, selvaggio e diseducato.

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