“Tu
sostieni che mio figlio non è mai tornato in Italia. Come fai ad esserne
sicuro?”
Camminano
lungo i vicoli che l’esondazione del fiume non è riuscita a coprire. La pioggia
biblica ha smesso di cadere, lo specchio dell’acqua comincia a ritrarsi.
“Deve sapere, ingegnere, che Punturina – così lo chiamavamo qui a York – credeva
nelle cose che studiava, credeva che fossero nozioni utili, sensate, di sicura
applicazione a problemi concreti; credeva che il master in economics che stava frequentando gli avrebbe spalancato le porte
della carriera universitaria. Non avrebbe mai potuto rientrare in Italia.
Laggiù siete pieni di laureati tirocinanti che negli studi commercialistici
vanno a fare la spesa per conto della moglie del titolare, negli studi notarili
perdono le giornate a compilare rogiti che non possono firmare, nelle
università si ingrigiscono a fare centinaia e centinaia di esami a studenti
ignoranti per conto di un docente assenteista, negli ospedali fanno a gara fra
loro a chi riesce a far godere meglio il primario.”
“E’ vero,” riconosce l’ingegnere malinconico
“mio figlio, invece, era un vero scienziato.”
Lo studente sogguarda il padre del disperso.
Esita un attimo fra consolazione e verità, poi decide.
“Suo figlio, se mi permette, più che uno
scienziato era un fanatico. Se per molti giovani italiani la via per la
carriera è l’autoumiliazione, per lui l’unica via era la bibliometria, il
conteggio delle pubblicazioni, quello che alcuni chiamano ‘il merito’, e che a
ben vedere è un'altra forma di asservimento ossequioso: alla religione
dominante, all’esattezza astratta, alla crudeltà del potere, alla teoria
economica che da trent’anni suggerisce come punire i deboli per salvare i forti
dal disastro che questi creano con le loro stesse mani. Una fede intensa lo
portava a fondersi talmente bene con la sua materia da trascurare le cure
essenziali del corpo. Non si procurava cibo in modo regolare, non si lavava se
non casualmente: quando se lo ricordava, in una pausa tra un’equazione differenziale
e un lagrangiano. Ma era felice così, anzi, rivelava spesso la sua
soddisfazione profonda per il fatto che non abitava più in casa dei suoi
genitori e non era più obbligato a seguire regole di nessun tipo. Era arrivato
perfino a elogiare, di fronte a testimoni, la libertà di pisciare sul lavandino
al mattino appena sveglio, come se questa innovazione equivalesse alla
conquista della posizione eretta da parte di un primate. In conseguenza della
felicità raggiunta, si aggirava sempre sudicio e sofferente come un malato
terminale. Da qui il suo soprannome, Punturina, coniato da noi colleghi del
master: agli animali in fin di vita si usa lenire le sofferenze, per pietà, con
una punturina letale.”
L’ingegnere spalanca occhi e bocca e sbianca:
“Ciò che Lei mi sta dicendo è cinico e disgustoso.”
“Le sto parlando di pietà, ingegnere. Suo
figlio, semmai, era cinico e disgustoso, era il potenziale consulente di un
dittatore.”
“E lei ha avuto pietà di lui” deduce
l’ingegnere serrando la disperazione negli occhi.
“Capita, talvolta,” riflette lo studente
calpestando il bordo dell’acqua “che l’esondazione del fiume ispiri azioni
irrituali”.
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