Una fermata di una
quindicina di minuti. Giusto il tempo di prendere una boccata d’aria aperta. Un
grande e spettacolare parco si estende fuori dal treno. Scendo e passeggio
sotto il sole e l’aria fresca, che rianimano la mia pelle sacrificata all’ombra
del chiuso.
Sento delle
voci lontane, là dietro quell’albero illuminato dal sole. Affretto il passo per
andare a vedere. Mi sdraio sull’erba per non disturbare. Sono su un campo di
denti di leone pronti a volar via al primo soffio di vento e a ogni mio spostamento.
Resto immobile, quindi, una macchia nera in un quadro puntinato di bianco. Dei
bambini stanno giocando, padroni di un parco giochi costruito su misura per
loro. Giovani donne (madri? sorelle? parenti?) spingono le altalene, animano i
giochi, e fanno ridere i loro bambini con gesti goffi, sguardi grotteschi, voci
innaturali. Ridono i bambini, con la stessa facilità con cui piangono, e per
ridere non hanno bisogno della parola, né di dovere afferrare alcun concetto.
Basta il tono di voce a dare loro il senso del comico.
I bambini scoprono il mondo. Le loro
accompagnatrici lo disvelano suggerendo stupori e sorprese. Guarda
quell’uccellino tutto rosso! Prendi la foglia che cade! Guarda come sei
arrivato in alto!... E i bambini, a questi suggerimenti, a queste aperture di
sguardi sul mondo, ogni volta pare che stiano per rispondere:
“Effettivamente.....”. Sì,
effettivamente il mondo è così: ricco di sorprese che stanno davanti ai nostri
occhi, e che noi tranquillamente ignoreremmo, se qualcuno accanto a noi non ci
stimolasse a scorgerle. Effettivamente, la curiosità non nasce da noi stessi,
ma dal nostro modo di stare con gli altri. Il vuoto che con la solitudine si
crea dentro di noi inevitabilmente inebetisce anche la curiosità, e l’apatia
della curiosità a sua volta non fa che approfondire il vuoto. Ripenso a una frase di Camus: per lottare
contro l’astratto bisogna un po’ somigliargli. Come è maledettamente vera! Ma
allora perché lottare? Perché farsi plasmare, inebetire, svuotare? I bambini
giocano, si divertono, ridono e piangono, e questo vuoto non possono sentire.
Non lo possono sentire neanche le loro madri o sorelle o parenti, riempite
della presenza di quei piccoli indaffarati esploratori di vita, che le
costringono, per potere comunicare con loro, a restare in stretto contatto con
le sensazioni più semplici e meno contaminate dalle difficoltà del vivere.
Nessuno, in
questo quadretto di stupori e curiosità, si accorge della presenza di una
macchiolina nera in un prato puntinato di denti di leone. Nessuna madre dirige
lo sguardo del bambino verso quello strano individuo che osserva, curioso sì,
ma di una curiosità astratta, il roteare dei giochi e dei movimenti impacciati,
come se questo roteare e questo impaccio fossero i veri oggetti del suo interesse.
Nessuna madre o sorella o parente suggerisce al suo bambino, neanche quando
l’uccellino rosso è volato via, di guardare quello strano contenitore di
oggetti senza peso che affollano la mente e la costringono alla ricerca compulsiva
di un ordine nel caos, una visione lucida nella nebbia.
La
macchiolina nera è scomparsa, dispersa nell’aria come un dente di leone, e ha
ripreso la via verso il treno.
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